PREFAZIONE: CONTATTO
Ci si propone, oggigiorno, il raggiungimento di un traguardo di natura palesemente fuorviante: il punto di contatto tra la settima arte e l’industria videoludica. Fine ultimo: la creazione di un film interattivo nel quale è il giocatore protagonista reale, inequivocabile, di vicende per forza di cose libere, soggette a bivi e variazioni.
Moda maledetta, decontestualizzazione, ribrezzo, rabbia. Perdita di personalità per il videogioco? O magari la sua definitiva consacrazione nell’Olimpo delle arti “regolari”?
ACCEZIONI CLASSICHE
Film: dall’Inglese, “Pellicola”. Insieme d’immagini in movimento chiamate fotogrammi, il cui susseguirsi in velocità (nell’ordine di 24, 30, 50 o 60 per secondo), crea l’illusione di continuità propria del mondo reale. La porzione di “realtà” mostrata (generalmente sul “Grande Schermo”) è definita “campo” ed è l’unico riscontro oggettivo che separa, o meglio, unisce, la finzione della scena dal pubblico. Per quante persone possano essere presenti in sala, lo schermo è uno. Univoco è pertanto il mondo in cui lo spettatore recepisce l’immagine. Che poi si rielabori criticamente – e soggettivamente – la finzione rappresentata, è un altro discorso: in questa sede è importante porre l’accento sul fatto che il mondo dipinto, la trama, le motivazioni dei personaggi, siano parto di una e una sola “macchina” – lo schermo – e non soggetti a incomprensioni o valutazioni per l’appunto soggettive.
Videogioco: “Arriverà un momento, Snake, nel quale ci saranno delle videocassette in cui tu potrai manovrare il protagonista!” - “Non ci credo… non avverrà mai!”. Il veloce botta e risposta tratto – più o meno testualmente – da una delle conversazioni via Codec di Metal Gear Solid 3: Snake Eater, pare una sorta di profetico presagio, che Kojima si può permettere per il semplice fatto di ambientare la sua storia nel passato.
Eppure il fondo di verità, sollevato dalla roboante esclamazione del primo personaggio interpellato nel dialogo, risulta evidente. E permette di ragionare e porre interrogativi ai quali voi dovrete rispondere.
Il videogioco lo conosciamo bene, noi: al comando di uno o più personaggi – a volte eserciti – salviamo la donna amata, la nazione, l’universo. Prendiamo parte a scelte immediate e funzionali all’istante, diventiamo parte integrante di un mondo che si unisce a noi attraverso un flebile collegamento via Joypad.
Ma viviamo in questo mondo?
La risposta, nella maggioranza dei casi, è no. In altri casi, il ragionamento è più complesso e mette in ballo variabili come personaggi secondari e situazioni precalcolate, ma la risposta non sfocia mai in un convinto quanto urlante “Sì”.
Già dall’affermazione di Kojima pare chiaro il traguardo ambito: una videocassetta all’interno della quale muoviamo un personaggio.
Parliamone un po’.
LA VIDEOCASSETTA DI KOJIMA, IL PERSONAGGIO E LA LIBERTA’.
Grand Theft Auto introduce – o meglio, sviluppa – il concetto di mondo libero, free-roaming assoluto. Se si dovesse parlare di libertà si dovrebbero tenere a mente le innumerevoli situazioni immaginabili in anche dieci metri quadrati di Liberty City. Si potrebbe strisciare, sparare a delle finestre e vederle rompere, uccidere un innocente senza conseguenze. Già l’introduzione della Polizia che cerca di punire un nostro assassinio è, paradossalmente, un impedimento alla decantata libertà assoluta. Ma è solo la punta dell’Iceberg. Ci si rende conto che non si può entrare in un negozio, che non si può oltrepassare un ponte per un maledettissimo pericolo d’uragano; motivazioni risibili che rendono il videogioco portatore di una libertà fascinosa ma faziosa, tollerante ma allo stesso tempo ristretta.
Allora ci si accorge che si sta giocando nella videocassetta di Kojima, che il personaggio si muove all’interno di un percorso non modificabile in alcuna maniera, come un nastro di una VHS. Magari si potranno imboccare due vie differenti, ma non è questo il punto: le due vie sono state in ogni modo programmate e restano immutabili, immobili, senza vita, non reali.
La libertà non è libertà se non si può eseguire la più stupida azione, come dare il “cinque” ad un passante. Il videogioco è così, un film modificabile al livello più superficiale, quello dell’apparenza. È com’essere agli arresti domiciliari, insomma.
STRUTTURA DELLA VIDEOCASSETTA # 1: GAMEPLAY, ESPLORAZIONE.
Appurato il termine di “libertà totale”, è bene analizzare la libertà “condizionata”. All’interno del suo sviluppo morfologico e narrativo, il videogioco si discosta, sia pure con timidezza, dal film. La durata è l’elemento più soggetto a variazione. Spesso è possibile indugiare in un’area per ore. La gestione della regia è invece da affrontare in maniera diversa: certi giochi propongono una camera libera, da gestire attraverso uno stick o una coppia opposta di tasti. Allora si è distanti dal cinema. Quando invece la camera è automatizzata, l’esplorazione del personaggio segue pedissequamente le orme della settima arte. Il “corridoio”, in altre parole il livello, addirittura è visibile attraverso una sola angolazione, decisa dal regista e insindacabile. Questo è un film interattivo, il termine più in voga del momento. Un film prestabilito nel quale un uomo – o una donna chicchessia – procede attraverso uno script, un copione, una sceneggiatura, quasi mai senza bivio alcuno.
In realtà certi giochi permettono di decidere in che “direzione” continuare la storia, fino all’approdo di finali diversi, ma non si ha mai la sensazione genuina di aver contribuito “realmente” ad un solo avvenimento.
La morte o game over è la variabile comune a quasi tutti i videogiochi, ma non viene presa in considerazione in quanto tale perché è facilmente ripristinabile attraverso sistemi di salva/carica.
STRUTTURA DELLA VIDEOCASSETTA # 2: CUTSCENE
Il protagonista di un gioco è uno schiavo nelle mani del giocatore fin quando non iniziano le cutscene, i “video”, e diventa uno schiavo nelle mani dello sceneggiatore/regista.
Il videogioco in questa fase è solo ed esclusivamente Cinema.
La regia, la recitazione, la fotografia e la direzione artistica, tutto identico ad un film.
Si frappone tra il giocatore – pardon, spettatore – un muro invalicabile: si abbatte la sospensione dell’incredulità.
Certi giochi hanno tentato di raccontare la storia “in-game”, come Half Life 2, ma sono esempi rari e poco rilevanti, perdipiù localizzati spesso e volentieri solamente all’interno della categoria dei giochi in soggettiva.
Il videogioco quindi, in generale, è a volte libertà condizionata, a volte Cinema.
Kojima, nella sua interpretazione del medium videoludica, ha sempre cercato il perfetto punto di commistione tra video e game. Frenato da limitazioni tecniche – mai creative – il suo sogno è rimasto fino ad oggi un’utopia.
Abbattute anche le barriere tecnologiche con l’avvento di PlayStation3, Kojima ci riprova, fa esplodere tutta la sua carica creativa e getta alle ortiche le convenzioni non scritte.
Missione compiuta?