Non è semplice scrivere buoni libri sul calcio. Ci è riuscito Nick Hornby con Febbre a 90°, ci riesce anche David Peace con Il maledetto United, una dichiarazione d’amore per uno sport che in Inghilterra è sacro quanto la Regina, e per un personaggio che di questo sport ha fatto la storia.
Brian Clough, football genius con un gloriosa carriera da giocatore alle spalle (274 gol in 251 partite vestendo le maglie di Middlesbrough e Sunderland, ma con due sole presenze con quella della nazionale), si è riciclato come allenatore dopo che un brutto infortunio lo ha costretto a lasciare il calcio giocato.
David Peace mescola fatti e personaggi reali con la finzione narrativa, e presenta Clough come un uomo brusco, sboccato, costantemente in bilico tra l’esaltazione e l’insicurezza, tra il successo e il fallimento.
Un uomo innamorato del calcio e della bottiglia, capace di rendere le conferenze stampa degli inni al politicamente scorretto (celebre il “Cheating, fucking Italian bastards” con cui definì la Juventus dopo una semifinale di Coppa dei Campioni persa conto i bianconeri dal suo Derby County).
La narrazione procede attraverso una serrata alternanza tra il passato (gli inizi sulla panchina dell’Hartlepools, la consacrazione su quella del Derby County, la sfortunata parentesi come allenatore del Brighton & Hove Albion) e il presente, i 44, maledetti giorni come manager del Leeds.
Il Leeds. Lo sporco, sporco Leeds.
Una squadra di cui Clough odia la storia, lo stile, lo staff, il pubblico, e soprattutto l’ex allenatore, quel Don Revie passato ad allenare la nazionale inglese, ma che sembra non aver mai abbandonato lo stadio di Ellan Road.
Revie è una presenza ingombrante e ossessiva che aleggia negli spogliatoi, nei corridoi, sulle tribune, e soprattutto nel cuore dei giocatori, e rappresenta tutto quello che Clough odia nel calcio: i piagnistei e le proteste, le astuzie e gli interventi ben oltre i limiti del regolamento, l’appello alla sfortuna dopo la sconfitta, la scaramanzia.
Senza l’aiuto di Peter Taylor, braccio destro che lo ha sempre seguito in passato e con cui si ricongiungerà in futuro, rinchiuso in un albergo di lusso lontano dalla famiglia, Clough è solo contro tutti, romantico nella sua testardaggine, ubriaco, insonne.
Pur di parlare con qualcuno ordina da bere dalla sua stanza, e costringe i camerieri a fermarsi per un brindisi. Il Leeds, intanto segna poco e vince ancor meno, e l’esonero diventa sempre più inevitabile.
Con la burrascosa fine della sua avventura sulla panchina degli Whites, finisce anche il pezzo della storia di Brian Clough che Peace ha scelto di raccontare. Non fanno parte del romanzo i successivi, sfavillanti successi con il Nottingham Forest, che Clough allenerà per ben 18 anni (e con cui conquisterà due Coppe dei Campioni consecutive), perché questa è la storia di una caduta fragorosa, che nessuna futura vittoria riuscirà a far dimenticare, per lo meno non a chi ne è stato protagonista.
Chi ama il calcio non può che amare anche questo libro: le comparsate di George Best e Bobby Charlton, di Eusebio e di Altafini, la vita dello spogliatoio, l’odore dell’erba, il rumore della folla giubilante dopo una vittoria, la desolazione di uno stadio vuoto dopo una sconfitta.
E anche chi pensa che il calcio si riduca a 22 giovanotti in pantaloncini che rincorrono un pallone non potrà non riconoscere che, quando il racconto ha il taglio giusto, anche una banale partita può diventare una calzante metafora della vita.