"Siamo il più bel corteo degli ultimi 150 anni". Uno slogan ironico, ma neppure tanto. Per usare altre parole del nemico della piazza, quello di ieri è stato un miracolo italiano. Quando sarà finita l'era Berlusconi, si parlerà ancora del 5 dicembre come di un giorno che ha cambiato la storia.
Nel mondo non s'era mai vista una simile folla di persone convocata attraverso la rete. E' l'ingresso ufficiale della politica nell'epoca di Internet. Qualcosa che va perfino oltre, anzi molto oltre l'obiettivo dichiarato di costringere il premier alle dimissioni. E' una rivoluzione. La rivoluzione viola. Allegra e vincente: nelle cifre, nei modi, nei linguaggi, nei volti, spesso di giovanissimi. Non era accaduto a Londra, a Parigi, a Berlino, in nazioni dove l'uso della rete è assai più diffuso che in Italia. Neppure negli Stati Uniti, dove da anni esiste MoveOn, il movimento on line che ha creato il fenomeno di Obama. E' accaduto qui, nel laboratorio italiano, in una piazza romana da sempre teatro della nostra storia. In questo caso, la fine decretata della seconda repubblica.
Di fronte all'enormità del fatto nuovo, colpisce la decrepitezza di un ceto politico a fine corso, evidente nelle reazioni scontate, conservatrici, impaurite. Di tutto il ceto politico, di maggioranza e d'opposizione. I portaborse berlusconiani, che si sono lanciati nella solita arringa contro le "piazze giustizialiste", aggettivo che non significa nulla per i ventenni in corteo. Le solite timidezze della dirigenza del Pd, che conferma di capire poco, come le precedenti, dei mutamenti profondi avvenuti nella società italiana. Ma pure la corsa a "mettere il cappello" dei dipietristi e dell'ex sinistra arcobaleno, comunque mantenuti dagli organizzatori ai margini del palco e della festa.
Fra tutti, certo, il più incomprensibile è l'atteggiamento del Pd di Bersani. Un partito nuovo, almeno nelle intenzioni se non nel gruppo dirigente, inossidabile ai cambi di nome e di sigle, che avrebbe dunque in teoria tutto l'interesse a sperimentare le nuove forme della politica, a esserci insomma in occasioni come queste, piovute dal cielo. "Perché Bersani non è qui?" era la domanda del giorno, sul palco e fra la gente. Già, perché? C'era una grande manifestazione di popolo, a costo zero rispetto alle onerose manifestazioni di partito. C'erano in piazza l'elettorato reale e quello potenziale dei democratici. Chiedono le dimissioni di un premier che ha sputtanato l'Italia nel mondo, con le veline candidate in Europa, le sua storie personali e le scelte pubbliche, l'elogio dei dittatori, il conflitto d'interessi, i trucchi per sfuggire alla giustizia, i media di sua proprietà usati come manganelli, le accuse dei pentiti di mafia. Elementi che, presi uno per uno, sarebbero già stati sufficienti in qualsiasi altra democrazia per chiedere le dimissioni di un governante. Perché allora Bersani non c'era? Perché il maggior partito d'opposizione ha addirittura paura a pronunciare la parola "dimissioni"? Perché invece di abbracciare gli organizzatori, a partire da Gianfranco Mascia, e precipitarsi di corsa, i dirigenti del Pd esalano sospetti, perfino disgusti nei confronti dell'onda viola? Sarebbe come se Barack Obama, invece di accettare con entusiasmo l'appoggio di MoveOn, che gli ha fatto vincere le elezioni, avesse detto: no grazie, preferisco fare da solo.
"Un errore grave, di quelli che si pagano cari" diceva Pippo Civati, trentenne esponente del Pd, che è venuto con regolare maglione viole, sulla base di una scelta assai più semplice: "Venivano tutti gli elettori con cui sono in contatto, perché io avrei dovuto essere da un'altra parte?".
Passeggiare per le strade di Roma ieri, a parte tutto, era un esercizio utilissimo per un politico. Le facce, le storie dei partecipanti raccontavano un'Italia che non comparirà mai al Tg1 ma opera ogni giorno nel famoso territorio. Associazioni di ogni tipo, che hanno movimentato già sulla rete decine di battaglie locali e nazionali, sulla Tav, il Ponte di Messina, il precariato, la scuola. Volontari, lavoratori, ceti medi, centri sociali ed elettori di destra delusi, gente del Nord, del Sud, immigrati: bella gente. Più giovani di quanti ne compaiano di solito nei cortei, quasi soltanto ventenni o cinquantenni, col buco in mezzo delle generazioni cresciuti negli ultimi decenni di egemonia televisiva.
Tanti pezzi di un'Italia non qualunquista, non rassegnata, che non sta mani nelle mani tutto il giorno a chiedersi "che cosa possiamo fare?" o a lagnarsi della casta dei politici. Domani non torneranno a casa a guardare la televisione. La rivoluzione viola non finisce qui e non finirebbe neppure con le dimissioni di Berlusconi. Continuerà a far politica nei nuovi modi, con o senza il permesso di chi pensa che la politica sia decidere tutto nelle fumose stanze di un vertice a palazzo.