Contest di scrittura - THREAD UFFICIALE (all'interno i dettagli) - Pag 2
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Discussione: Contest di scrittura - THREAD UFFICIALE (all'interno i dettagli)

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  1. #16
    .MVA. L'avatar di elettrodado
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    Fuori Concorso..

    ..ma troppo azzeccato per il tema da non proporlo.. è un vecchio classico di fantascienza di quel genio di Fredrick Brown e s'intitola: SENTINELLA

    Quando lo lessi vent'anni fa avevo diciott'anni e mi colpì come pochi altri racconti che ho letto. E' fuori concorso ma magari a qualcun altro può fare lo stesso effetto che fece a me. Prometto di mettere anche qualcosa di mio.

    Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato,faceva d'ogni movimento una agonia di fatica.
    Ma dopo decine di migliaia d'anni quest'angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quellidell'aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato anche il nemico. Il nemico, l'unica altra razza intelligente della Galassia ... crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
    Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.
    E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
    Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale.
    Stava all'erta, fucile pronto. Lontano cinquantamila anni luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a case la pelle.
    E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
    Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti col passare del tempo s'erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no.
    Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle di un bianco nauseante, e senza squame.
    Ultima modifica di elettrodado; 2-06-2008 alle 23:37:43

    I miei giochi
    FORZA SPAL!

  2. #17
    Mvesim
    Ospite
    RACCONTO FUORI CONCORSO (a causa del superamento del limite massimo concesso)
    L'autore si scusa se sono presenti inesattezze sia di ordine grammaticale sia di ordine realistico (il testo è ancora sotto rilettura ma volevo postarlo prima della chiusura del contest).

    Il gabbiano nero

    "Dove stiamo andando Jonathan?" chiese il giovane Iamufat all'alto ragazzo dai capelli rasati con cui stava seguendo, a piedi, il sentiero che passava in mezzo al territorio semi-incolto della periferia.
    "Stiamo andando in città, fratello. Volevo lenire ad un dubbio che mi ha continuato a ledere per tutti questi anni in cui sono stato via."
    "E cosa?" domandò il piccoletto; Jonathan sorrise malinconico.

    Tutto era iniziato parecchi anni fa: Khartum, capitale del Sudan, fine anno accademico alla facoltà d'ingegneria; dopo lunghi sacrifici Jonathan Lamas era finalmente riuscito ad ottenere la laura di ingegneria civile.
    Un buon titolo, invidiato e ammirato, che era riuscito ad ottenere con una buona media, uscendo con l'onorevole voto novantadue.
    Al villaggio non tutti si potevano permettere gli studi universitari: anzi, la maggior parte dei ragazzi, se non la completa totalità di essi, non iniziava nemmeno gli studi elementari predisponendosi ad un'onerosa vita nei campi o nelle miniere di qualche multinazionale che operasse nelle vicinanze.
    Fortunatamente per Jonathan, una volta ogni cinque anni, anche per avere un rappresentante cittadino nella capitale o, per lo meno, nel capoluogo regionale, che poi, eventualmente, avrebbe potuto sostuire il capo-villaggio, si teneva un'estrazione fra i giovani e in quel lontano aprile 1980 era stato scelto lui.
    La festa e gli onori in suo onore furono estremamente grandi e lunghi, con diversi balli tribali e grida: Jonathan rappresentava per il piccolo luogo la nuova e incredibile speranza che si aggiungeva a quelle tre, quattro persone che sapevano leggere e scrivere.
    L'altro ovvio motivo che giustificava la grandezza di tali festeggiamenti era ovviamente la terribile condizione di miseria che li costringeva a godere di qualche gioia solo in sporadici momenti, però, quando si poteva tutti i presenti volevano dimenticare la povertà, le malattie e soprattutto la guerra che dilaniava il paese.

    Ma mentre le persone possono dimenticare, o almeno fare finta di dimenticare, i fatti non possono fermarsi e, nel suo intento mortale, il conflitto giunse rapidamente anche lì.
    Fu un attacco veloce, non si sa se dei guerriglieri ribelli, se delle milizie dell'ONU o se al soldo del governo, ma ciò che accadde Jonathan non potè mai dimenticarlo.
    Si era appena svegliato dalla sbornia del giorno prima, turbato da una terribile deflagrazione proveniente da fuori il suo capanno... era uscito e aveva visto.
    Dall'alto tre carroarmati sparavano senza esitazione sulla popolazione inerme che non poteva fare altro che fuggire in direzione opposta, nel contempo soldati di qualche fazione scendevano dalla collina e con la mitraglietta falciavano le giovani e i ragazzini ch'erano usciti all'alba per raccogliere i magri raccolti che il tristo terreno sudanese dava.
    Jonathan reagì come la maggior parte della gente: dandosi alla fuga con suo padre.
    Mentre la sua terra natia mutava dal giallo della paglia al rosso fuoco il neo-ingegnere non pensò ad altro che voleva fuggire da quel luogo infernale e tale pensiero era completato dalle parole suo padre che gli ripeteva costantemente: "Fuggi, corri!".
    Un po' grazie ad una piccola difesa da parte dei guerriglieri del villaggio, un po' grazie ad una buona dose di fortuna padre e figlio riuscirono a giungere lontano dall'area di conflitto.
    "Padre, voglio andarmene, voglio lasciare questa zona di guerra, questo luogo di conflitti. Forse... forse andando altrove, in Europa, potrei fare fortuna e poterti aiutare" questo breve discorso uscì quasi d'istinto dalla bocca del giovane Lamas, benchè si ripetesse tali parole continuamente ormai da cinque lunghi anni universitari passati ad ammirare le costruzioni dei più abili architetti occidentali.
    "No, figliolo. La nostra terra e le nostre tradizioni sono qua. Lasciare questi luoghi, questo tramonto, questa vita ti farà perdere tutto ciò che hai."
    "Ma cos'è che ho? Ogni giorno stiamo lottando con la fame, con le malattie, con l'ignoranza, con la guerra. Ogni attimo può essere la nostra morte. Padre, sinceramente, io sono stanco, stanchissimo."
    "Forse il villaggio ha sbagliato a mandarti all'università, nella capitale. Forse avresti dovuto anche tu piegare la schiena per raccogliere i pochi semi di cibo dati dalla nostra terra, avresti dovuto anche tu alzarti all'alba per camminare per chilometri alla ricerca di un pozzo d'acqua o di un medico, avresti dovuto anche tu..."
    "BASTA! Basta! Ho capito! Ma padre, perchè dobbiamo accontentarci? Perchè non possiamo slegarci da questa terra ed essere liberi?"
    "Per la nostra felicità figliolo, solo per la nostra felicità."
    "Ma qua io non sono felice."
    "Vedo che ormai hai fatto la tua scelta Jonathan, va e sii felice. Io rimarrò qua ad aspettarti; se sentirci useremo lo stesso metodo che abbiamo usato in questi anni universitari."
    "Grazie padre."

    Jonathan arrivò facilmente, grazie ad una corriera diroccata, a Khartum per cercare un modo legale per dirigersi verso l'Europa, o meglio l'America, ma l'unico metodo possibile per poter andare via era aspettare per anni davanti alle pochissime ambasciate presenti nel paese che, ovviamente, erano già prese d'assalto da molti disperati che avevano già le idee molto più chiare del nostro giovane amico.
    L'unica possibilità per potersene andare era il viaggio di fortuna attraverso un bel pezzo d'Africa e il mar Mediterraneo: un viaggio estremamente lungo per una persona che non era mai andato oltre ai confini del proprio stato.
    Il laureato stava pensando ad un metodo per fuggire in aula studio della propria università quando giunse lì il suo "amico" Abdul Masaa: gli raccontò tutto quello ch'era successo finora.
    "E' incredibile amico. Anch'io voglio andarmene da questo buco di posto. Senti Lamas, vieni con me in Italia, ho parenti e amici. Inoltre so già anche come andare."
    "Ma la tua ragazza e lo studio?"
    "Quella troia? Bah... lasciala perdere. Andiamo in Europa a divertirci."
    Non vedendo grandi alternative, visto che, in quel momento non gli pareva che ci fossero molte altre scelte, Jonathan accettò l'offerta di quell'essere sgradevole.
    Ebbe così inizio un lungo viaggio di oltre un mese attraverso mezza Africa fatto di viaggi in carovane di profughi in fuga dal Darfur, in massacrate camminate lunghi territori semi-desertici e con un lunghissimo e scomodissimo viaggio lungo una strana dissestata su di un pullman stracolmo di gente proveniente da tutto il continente.
    Se i due sudanesi pensavano di aver visto fino ad allora il peggio, non potete immaginare cosa fu per loro il viaggio in barca: centinaia, forse oltre un migliaio, di persone ammassate in un'unica stiva professanti le più diverse religioni.
    Uomini, donne, bambini, vecchi, anziani, marocchini, sudanesi, ghanesi, nigeriani, algerini, persino qualche cinese, musulmani, cattolici, animisti, venditori di oppio, profughi, donne incinte... una specie di grandissima arca di Noè fatta di disperati.
    Il viaggio durò una settimana.
    "Ehy ragazzo, cosa ne pensi non è una vera Babilonia?" gli chiese, al settimo giorno, in un inglese forzatissimo uno dei conducenti del mercantile.
    "Cos'è una Babilonia?" richiese di contrappasso, con un inglese da università africana.
    Il conducente, un grosso algerino quarantenne, rise di gusto: "Bwahahah... come ti chiami ragazzo?"
    "Jonathan signore"
    "Oh... come il... il...?" non venendogli la parola quell'omone disse qualcosa in francese ad un altro disperato lì vicino: "Ehy Raal, come si dice gabbiano in inglese?"
    "Gabbiano" rispose in inglese.
    "Come il gabbiano?" lo guardò scettico Jonathan.
    "Esatto. Come il gabbiano. Bah... ma cosa ne vuole sapere un ignorante come te." quindi, improvvisamente, si rivolse a tutta la barca e urlando parlò: "ATTENZIONE! Ormai siamo presso le coste della Sicilia. Salite sui gommoni e da qui dovrete raggiungere da soli la riva. Vi auguro di trovare una vita felice e appagante."
    Tutti i presenti, a parte ovviamente gli algerini che si occupavano del trasporto, si diressero in massa sui gommoni alla ricerca di un posto dove sedersi, temendo di dover rimanere ancora su quella barca o, peggio, di doversela fare a nuoto.
    Appena tutti si accomodarono la navetta che li aveva accompagnati sin lì si allontanò: le ultime parole che Abdul sentì da quegli algerini, e che in seguito riferì a Jonathan, furono: "Secondo te dovevo dirgli anche: grazie per aver viaggiato con noi?" seguito da atroci risate.

    I vari gommoni, sfortunatamente o fortunatamente (questo solo il destino avrebbe potuto deciderlo), non furono fermati dalla polizia costiera che in quel momento erano impegnate a diversi chilometri di distanza.
    Lo sbarco fu estremamente brusco, violento e veloce: tutti i vari profughi appena sbarcati iniziarono a correre via disperati alla ricerca di qualcosa da mangiare o di un luogo dove dormire.
    Diversi, comunque, appena sbarcati si piegarono a pregare per ringraziare il loro Dio di averli fatti giungere sin lì sani e salvi.
    In quell'andirivieni di persone che veniva e andavano Jonathan si ritrovò completamente confuso e privo di un vero punto di riferimento: il fatto che aveva perso di vista Abdul non lo aiutava di certo.
    "Attenti! Qualcuno ha chiamato la polizia. Via!" urlò in qualche lingua un uomo di colore che aveva visto delle volanti avvicinarsi da est; tale frase, in vari varianti, fu ripetuta in diversi altri idiomi da altrettante persone
    In quel momento tutti pensarono solo a se: bisognava fuggire e cercare disperatamente un luogo di soccorso.
    Lamas, non capendo appieno cosa stesse accadendo, decise di seguire una coppia di giovani ragazzi della Costa d'Avorio che si stavano dirigendo verso un capanno situato lungo la costa.
    "Ehy, dove stai andando? Vieni qua!" disse una voce situata ancora vicino ad un gommone: l'ingegnerie sudanese risentendo le parole di Abdul si sentì sollevato e lo raggiunse.
    "Cosa facciamo ora?"
    "Direi di lasciare questa banda di disperati al loro destino e dirigerci verso Maobab. E' mio zio e gestisce un ristorantino tipico nella zona extracomunitaria di Catania."
    "Non ci conviene mangiare qualcosa prima di fare tutta questa strada?"
    "La cosa fondamentale ora è andare più lontano possibile da qua: non hai sentito? Sta arrivando la polizia, se ci becca rischiamo di finire in un centro di permanenza temporanea?"
    "Una specie di centro d'accoglienza? E non sarebbe un bene?"
    "E' una specie di prigione per le persone che devono essere rimandate nel loro paese perchè clandestini. Su, andiamo!"

    I due ragazzi iniziarono ad incamminarsi verso Catania a piedi, evitarono di farsi notare dalle auto temendo che potesse uscire da ognuna di esse un potenziale "nemico" che li rimandasse in patria.
    Lungo la strada si fermarono soltanto presso una prostituta del loro paese che, riconoscendo dei compatrioti, volle offrirgli un qualcosa da mangiare ad un kebabbaro notturno ma non un qualcosa di più: "Niente soldi, niente sesso"; fu categorica su questo.
    Abbandonando la ragazza i due, dopo ancora parecchie ore di viaggio, arrivarono nel capoluogo siciliano soltanto verso le diciasette del pomeriggio con un sole che faceva sudare persino i due ragazzi abituati a temperature ben più alte.
    Jonathan fu meravigliato dalla città di Catania: mai aveva visto un miscuglio così intenso di tradizioni, modernità e natura... in Africa si passava solo da un estremo all'altro mentre lì il tutto era compenetrato intensamente in qualcosa di estremamente forte e intriseco.
    Altro fatto che notò fu lo sguardo degli abitanti: era orgoglioso ma nel contempo calmo con un atteggiamento da padroni del mondo, tali occhi li aveva visti solo in pochi stranieri che avevano spiegato alla sua università.
    subito dopo lo sguardo seguiva l'opulenza di ogni individuo, persino i più poveri sembravano meno patiti di un qualsiasi ragazzo del suo villaggio, e il gigantesco spreco che si vedeva in giro.
    Continuando ad ammirare una città che, fra le sue contraddizioni, lo riempiva di speranza e angoscia per il futuro non si accorse di essere ormai giunto, seguendo incosapevolmente Abdul, davanti al ristorantino Africano di Maobab.
    Davanti al locale un individuo di colore, abbastanza sovrappeso stava parlando con due spilugoni vestiti di nero.
    "Essere cento euro. Giusto?" domandò con un italiano stentato, leggermente impaurito ma con un tono d'usualità, quasi che fosse abituato a fare questo quesito."
    "Esatto. Spero che tu abbia i soldi." disse con tono calmo e con un leggero accento siciliano il più magro.
    "Eccoli qua." disse porgendogli il contante richiesto.
    "Perfetto. Ci si vede Maobab e grazie per il pranzo."
    Mentre i due smilzi si allontavano, quasi da contrappasso, Abdul e Jonathan si avvicinarono al capo-ristorante che però non si stava accorgendo di loro come perso nei suoi pensieri.
    "Ciao Zio." salutò Abdul parlando nella sua lingua.
    "Uh?" ribattè volgendo lo sguardo verso i nuovi interlocutori, focalizzò lo sguardo e poi sorrise di gusto: "ABDUL! Nipote! Cosa ci fai qua in Italia? Entra dentro che mi racconti tutto. E chi è il tizio che è con te?"
    "Lui è Jonathan, ha viaggiato con me."
    "Jonathan eh? Come il gabbiano Livingstone. Entra pure anche te che vi offro un bel pranzetto."
    I due non si fecero ripetere l'offerta ed entrarono di corsa.

    Abdul e Jonathan furono serviti quasi subito e poi dormirono tutto il resto del giorno, su di un divano, assonnati dal sonno arretrato accumulato durante il viaggio.
    Il giorno dopo, ch'era di chiusura poichè domenica, i due furono serviti a colazione da una bella giovane di colore dai fianchi stretti e dallo sguardo color dell'ambra.
    "Lei è mia moglie Amisha. E' marocchina, ci siamo conosciuti quando lei ha deciso di fare la cameriera da me." espose orgoglioso Maobab: "Comunque raccontatemi come mai avete abbandonato la nostra Africa. Quanto mi mancano gli spazi dell'Africa."
    Abdul espose chiaramente il viaggio e i motivi che li avevano spinti sino a lì corretto solo raramente, su alcuni piccoli punti, da Jonathan.
    "Una bella avventura ragazzi. E ora cosa intendente fare?" chiese il locandiere.
    "Beh... speravamo di trovare un modo per stabilirci qua e poter aiutare in qualche modo la nostra famiglia." ribattè Abdul.
    "La cosa fondamentale direi che è per voi trovare un alloggio e un lavoro. Purtroppo non potete stare qua, ma se volete domani vi posso accompagnare verso alcune case vuote da cui potete, con qualche stratagemma, anche recuperare acqua corrente ed elettricità."
    "Sono case in affitto o in vendita?" domandò ingenuamente Jonathan.
    "Quanti soldi avete con voi?" richiese retoricamente il locandiere.
    "Pochi. Capisco, non è in affitto. Ma così non è reato? Non ci rendiamo complici di un furto?"
    "Cosa vuoi farci Jonathan, ci si arrangia. Anch'io ho dovuto iniziare così. Per il mangiare, invece, potete andare a qualche mensa per i poveri presso le varie parrocchie di quartiere... non dovrebbero farvi alcun problema."
    "E per lavorare? Cioè, dovremo aver bisogno di qualche soldo."
    "Vi lascerei lavorare da me a purtroppo ho assunto da poco tempo due nuovi ragazzi in condizioni simili alle vostre e mi piangerebbe il cuore lasciarli andare così. C'è poco da fare: se volete posso mettervi in contatto con qualche smercio di vendita di oggetti contraffatti oppure potete cercare qualcosa nel quartiere. Forse qualcuno cerca personale."
    "Altro?"
    "Beh... forse in campagna se è periodo di raccolta o presso qualche industria di costruzione dovrebbe assumervi anche se in nero."
    "Ma non c'è modo per me di sfruttare le mie conoscenze di ingegnere in questo paese?" scoppiò improvvisamente Jonathan non sentento niente di quello che sperava.
    "Hai un permesso di soggiorno? Conosci un po' d'italiano?" rispose ancora con una domanda il ristoratore.
    "Ehm... ho il mio documento d'identità e no, non conosco una parola d'italiano. Ma conosco un poco d'inglese."
    Maobab scoppiò in una sonora risata che durò a lungo, quasi a fargli venire le lacrime agli occhi: "Ma sentilo. Sa l'inglese? Guarda che qua al sud la conoscenza dell'inglese non serve assolutamente a niente. Forse è leggermente più utile al nord. Ma qua... Ahahah... e poi... no! Credi che valga veramente qualcosa il tuo SUDANESE ducamente d'identità? Ahahah... puoi usarlo per pulirci il culo quello. Senza un permesso di soggiorno te lo puoi scordare di trovare un lavoro che non sia di fatica in questo paesaccio. O almeno..." e in quel momento si fece scuro in volto: "...ci sono dei metodi. Ma sono tutti estremamente fuori luogo. Lasciate perdere."
    E con quello Maobab concluse la discussione e si avviò verso il televisore per assistere a qualche programma televisivo; Jonathan e Abdul uscirono per farsi un giro.

    Il mese a seguire fu, per i due, quasi interminabile: riuscirono a prendere possesso di un locale disabitato in un edificio che comunque era stato preso d'assalto, per lo stesso motivo, da tutte le persone che non potevano permettersi alcun tipo d'alloggio.
    A loro spese scoprirono che sussistevano dei gruppi con cui non dovevano avere niente a che fare notando soprattutto la compravendita di donne nel seminterrato da parte di alcuni papponi della zona che sembravano dividersi la zona.
    Più volte vennero contattati da qualcuno di questi per delle proposte di lavoro non propriamente illegali quali il veloce smercio di droga o il controllo delle prostitute ma entrambi rifiutarono, almeno inizialmente, le scelte.
    Abdul iniziò a vendere le borse notando quanto fosse duro quel vendite fra i vari problemi che s'intrecciavano fra il tenere una zona più o meno favorevole di vendita e dove passasse poca polizia.
    Jonathan tentò, senza alcun successo, di mettere a frutto le sue conoscenze ingegneristiche ma, ben presto, si accorse sia per motivi linguistici, sia per la mancanza di un permesso di soggiorno, sia perchè le sue conoscenze erano comunque inferiori a qualsiasi ingegnere italiano, che la sua ricerca era completamente infruttuosa.
    Fu solo alla seconda settimana di permanenza e dopo lunghe ricerche che riuscì a farsi assumere, ovviamente in nero, in una compagnia di costruzioni che lavorava in zona per la costruzione di case ed edifici pubblici.
    Non abituato a grandissime opere da manuale l'inizio fu leggermente difficoltoso, ma la buona volontà del giovane, anche se deluso dalle aspettative che aveva, lo portarono ad imparare ben presto i suoi nuovi compiti.
    Nel giro di un mese i due erano così riusciti a trovare una casa, un lavoro e i soldi, finalmente, iniziavano ad entrare: il primo ad integrarsi meglio, anche perchè più socievole fu Abdul che, con grande gelosia dell'amico, imparò anche rapidamente la lingua.
    Jonathan, al contrario, per una maggior curiosa mentale, tipica di coloro che sanno di poter meritare di più, faceva più fatica a comprendere quel nuovo mondo che lo guardava stranamente ostile più a causa del colore della pelle e dell'uso di una lingua differente da quella del paese ospitante.
    Più volte pensò di togliergli la vita ma le chiamate del venerdì mattina a casa tramite un internet-point per gli extra-comunitari riusciva a dargli la forza per resistere, per andare avanti e sperare che le cose potessero migliorare.

    La vita comunque proseguì abbastanza stabile per l'ingegnere africano e, nonostante qualche avventura, sia di ordine sentimentale con ragazze di colore, sia di ordine razzista a causa di qualche giovincello troppo esagitato, la vita proseguiva abbastanza tranquilla e spartanamente.
    Al contrario la vita di Abdul si mutò e da poveretto in canna che era iniziò a portare a casa diverso denaro e oggetti che in Africa solo i cittadini possedevano: un televisore, un frigorifero, un condizionatore, un computer, uno stereo, un videoregistratore, un playstation 3 modificata e così via.
    Dopo pochi mesi, addirittura, era riuscito a traslocare in una casa propria, ad ottenere un permesso di soggiorno e a trovare una bella ragazza con cui stare.
    Il giorno del trasloco Jonathan decise di rompere il tabù che aveva deciso fino ad allora di rispettare: avrebbe chiesto al suo amico da dove provenisse tutta quella ricchezza.
    "E allora, amico mio, è il momento di lasciarci. Un po' mi spiace" iniziò Abdul.
    "Senti, Abdul, ma come hai fatto ad ottenere tutta questa ricchezza? Tutti questi soldi?"
    "Oh... finalmente inizi ad interessartene anche tu. Su vieni con me che ti mostro."
    "NO!" rispose prontamente Jonathan sospettando qualcosa di losco: "Spiegami prima che cosa sta succedendo qua."
    "Senti Jonathan: o qua ti fai furbo o rimani... come te. Povero e senza speranza. Vieni che ti presento questi miei amici e vedrai che..."
    "NO! Non voglio entrare in un'associazione criminale. Com'è che la chiamano qua? Mafia?"
    "Bah... allora fa quello che vuoi. Se mi cerchi sai dove trovarmi. Addio Jonathan."
    E se ne andò.

    I sei mesi che seguirono furono, senza gli aiuti finanziari e sociali del suo amico, estremamenti difficili, ma il tracollo completo del povero Lamas avvenne soltanto verso dicembre, ad inizio dei primi freddi.
    "Mi spiace mio caro gabbiano." iniziò il signor Sandro, capo dell'azienda di costruzioni, usando il soprannome che ormai avevano affibiato all'ingegnere: "ma devo licenziarti. Ti pagherò comunque quest'ultima mensilità e nonostante tu sia in nero ti darò comunque un bonus d'uscita."
    "Ma... ma perchè?" chiese incredulo Jonathan.
    "Politica principalmente e poi, ovviamente, problemi di ricattaggio da parte della Mafia. E' passato il disegno di legge che condanna come reato l'essere clandestino in Italia. Se si scoprisse che ora tu hai lavorato, in nero, presso di noi passeremmo diversi guai con la magistratura italiana e nessuno di noi vuole finire in prigione."
    "Non è possibile. E' come se tutto questo pianeta avesse deciso di mettersi contro di me perchè ho cercato un'alternativa alla mia vita africana. Non potevo... non volevo..." non riuscì a finire la frase perchè scoppiò in lacrime.
    "Mi spiace ragazzo ma devo accompagnarti all'esterno del cantiere."
    Jonathan, rifiutando l'aiuto del suo capo (ma non i soldi), corse via piangendo disperato per quello che gli era capitato finora e finendo, in parte consapevolmente, di fronte alla casa dell'amico che lo aveva abbandonato in quella casupola mesi addietro.
    La casa a cui si trovava di fronte sembrava di buona famiglia e si stupì, in effetti, di trovare sul campanello la scritta del suo amico; suonò timidamente.
    "Chi è?" rispose una voce dall'altra parte del citofono.
    "Sono Jonathan Lamas. Cerco Abdul Masaa. E' in casa?"
    Il rumore meccanico del cancello che veniva aperto fu la risposta affermativa: entrò dal cancello, superò il giardino di medie dimensioni e si diresse verso la porta principale pronto all'accoglienza umiliante che si prospettava a fare.
    Dall'ingresso uscì uno sgargiante e vistosamente ingrassato Abdul che lo accolse felicissimo: "JONATHAN! Quanto tempo! Come mai qua? Hai deciso di prendere mano alla mia offerta?"
    "Mi hanno licenziato amico. Sono disperato."
    "Sei venuto nel posto giusto Ionni. Forse c'è anche la gente giusta per poterti aiutare a trovare un nuovo lavoro. Ma entra! Accomodati che te li presento!"
    Entrato il poveretto si ritrovò in una casa estramente elengante ed europea ove, a volte, stonando terribilmente con l'intero stile del palazzo, si trovavano grosse maschere di tribù africane.
    Lamas fu accompagnato nel soggiorno dove due giovani stavano vicino ad una porta, come di guardia: all'interno di esso due signori, uno giovane, l'altro più anziano, dialogavano placidamente sulla situazione politica italiana ma s'interruppero vedendo entrare il ragazzo arricchito che accompagnava Jonathan.
    "E quello chi è?" chiese il più anziano con un tono di voce tipicamente napoletano.
    "Si tratta di un mio amico. Si chiama Jonathan e..."
    "Oh... come il gabbiano." lo interruppe il giovane con un timbro duro milanese.
    Questa storia del gabbiano, che s'era ripetutamente in quei mesi in Italia, iniziava ad infastidire il povero ingegnere.
    "...ed è appena stato licenziato. Forse voi potreste..."
    "Uhm... ad osservarlo non mi pare che abbia il carattere di uno spacciatore o di un bullo per il pizzo. Che lavoro facevi ragazzo?"
    Jonathan, sollevato da quell'attenta analisi del suo animo, rispose tranquillamente: "Il muratore, ma sono laureato come ingegnere."
    "Non ci servono ingegneri per ora. Sai guidare?"
    "Ho imparato in Africa a guidare una piccola auto da un mio amico."
    "Perfetto. Allora presentati domani in Via Garibaldi 6 e chiedi di Gianni. Ti darà tutte le informazioni per il tuo nuovo lavoro. Ora per favore esci che dobbiamo parlare di qualcosa di più importante."
    L'ex-muratore fu accompagnato all'uscita dal suo amico.
    "Ci si vede Jonathan, ora scusami ma dobbiamo parlare di una piccola zona che dovrò controllare. Buona fortuna."
    "Grazie."

    L'indomani Lamas si presentò come richiesto nel luogo consapevole che tale scelta avrebbe potuto cambiargli e, forse, rovinargli la vita per sempre... ma, in fondo, peggio di così cosa poteva capitare?
    L'individuo che gli aprì il portone fu un individuo grosso e di poche parole.
    Nel giro di venti minuti gli aveva spiegato cosa doveva fare: usando un camion del latte avrebbe trasportato da Napoli a Bari dell'immondizia.
    Doveva fare attenzione a non farsi fermare dalla polizia e, in ogni caso, di guidare principalmente di notte: si doveva presentare a Napoli entro una settimana, là avrebbe ricevuto ulteriori informazioni su come compiere il suo compito, un permesso di soggiorno contraffatto e una patente per guidare mezzi pesanti.
    "Anche quella contraffatta?" aveva chiesto.
    "No, per quella conosciamo gente della motorizzazione che c'è la può fornire."
    Ottenuto il luogo dove presentarsi e la promessa che sarebbe stato pagato anticipatamente iniziò subito il viaggio verso la penisola per iniziare il suo nuovo lavoro.
    Non durò a lungo: esasperati dall'immondizia che ormai stava dilaniando il sud la giurisdizione italiana e la stessa Camorra siciliana all'interno del suo stesso gruppo iniziò una distruzione di quelle cellule criminali che si occupavano dello smercio illegale d'immondizia.
    Nel giro di tre mesi il sistema criminale legato al pattume, per un incontro fra stato, macro-criminalità e popolazione italiana, fu completamente distrutto ma Jonathan si ritrovò dalla parte del torto e fu anch'esso arrestato con l'accusa di "clandestinità", "smercio di materiale non degradabile", "rapporti con la Mafia locale" e "falsificazione di documenti statali".
    Fece a causa di ciò tre mesi di galera dopo una lunga serie di processi che durarono anch'essi tre mesi: per sua fortuna cadde l'accusa più pesante di "rapporti con la Mafia" e la pena gli fu accorciata da cinque e tre mesi per buona condotta, ma questo non gli bastò per evitare l'espatrio.
    Dopo poche settimane la storia si trovava da capo: era tornato in Sudan.

    "Allora fratello, dove stiamo andando?" richiese insistente Iamufat.
    "Ma quanto casino fai. Comunque eccoci arrivati." rispose Jonathan Lamas: si trovavano di fronte ad una delle poche biblioteche del paese: "Entriamo."
    Il silenzio in quel luogo era qualcosa di maestoso e si contrapponeva con forza con i rumori della naturale Africa.
    Iamufat corse verso alcuni libri per ragazzi mentre Jonathan si fermò al bancone.
    La grassa signora dei libri gli sorrise e chiese il solito quesito tipico di ogni commesso: "Desidera?"
    "Scusi, sa dove posso trovare il libro "Jonathan Livingstone"?".

    Ultima modifica di Mvesim; 5-06-2008 alle 19:03:21

  3. #18
    Broseph L'avatar di GFSan
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    22, 30, sera fiacca di una giornata fiacca. Ero alla scrivania e stavo dando gli ultimi ritocchi a uno scarabocchio improvvisato, buttato lì per il niente, per la noia, quando squillò il telefono. Dall'altro capo del filo, Sundae. Sundae è uno strano, ma è a posto. Viene da un'isola del nord europa, ce ne sono pochi di quel posto là e la maggior parte fa in fretta ad andarsene, verso lidi meno infelici; lui è l'unico abbastanza pazzo da esser venuto fin qui, invece di dirigersi, come altri dei suoi, in Gran Bretagna, o in Germania. Più che lui, i suoi genitori, visto che sono emigrati quando lui era ancora in fasce. Vai a sapere che cazzo gli passava per la testa.
    “Olà, Sundae.”
    “Bruno.”
    “Come gira?”
    “Male.”
    “Che è successo?”
    “Sto una chiavica, senti, ho bisogno di parlare con qualcuno... E di un bicchiere di qualcosa.”
    “Sicuro, vieni da me.”
    “No guarda, e se poi... No.”
    “Ti raggiungo io?”
    “Grazie.”
    “Sto arrivando. Ciao.”
    “Ciao...”
    Riattaccai. Presi una bottiglia dall'armadietto e mi avviai verso la macchina, rimuginando su cosa potesse essergli capitato. Aveva un tono di una mosceria unica, non come al suo solito, di più. Quello che sapete di Sundae, è che viene da non-ricordo-più-quale-isola-inculata-del-nord-Europa. Quello che non sapete è che quel posto è popolato da gente assurda. Strani nomi. Strani usi. Strani costumi. E strano colore della pelle: la sua gente ha la pelle bianchissima, alabastrina, non fosse che per alcuni tratti del viso e per il contorno occhi, nero corvino. Roba mai vista per alcuni tipi di qua, e non c'è da meravigliarsi se il povero cristo ha avuto casini per questa cosa tutta la vita.
    Adagiai la bottiglia sul sedile del passeggero [e che passeggero: ho pescato a caso e mi è capitata una bottiglia di Four Roses] e feci partire il motore. Tempo dieci minuti e fui sotto casa sua, il portone già aperto. Mi feci strada per le scale e bussai. Mi accolse subito dentro casa.
    “Salve.”
    “Ciao Bruno... Entra, accomodati.”
    Di tutte le assurdità di Sundae, ce n'è una alla quale non potrò mai e poi mai abituarmi, ed è casa sua. Tutta una grossa stanza, come una specie di loft, con mura, pavimento e soffitto segnati da disegni bianchi e neri, al limite dello psichedelico [la prima volta che mi ha invitato, mi stavo per sentire male]. In mezzo alla stanza, c'è una porta. Così. Senza un senso. Scale vicino alle finestre che fanno tanto suicidio dada e una lampada al neon circolare. Devastante. “Vieni in salotto”, mi disse. Lo seguii mentre apriva la porta e ci passava attraverso; una volta gli sono passato accanto guardandolo stranito e ha dato di matto. Presi posto su una poltrona soffice di stoffa viola e gli porsi la bottiglia; se la portò vicino al frigorifero, poi prese due bicchieri, versò da bere per entrambi e tirò fuori dal frigorifero una banana. Se la portò fin qui, mi diede il mio bicchiere e cominciò a inzuppare il frutto dentro al liquore. Ormai non mi chiede più se la voglio anche io, la banana. Tracannai un bel sorso e, finalmente, gli chiesi: “Allora. Raccontami”. Guardava per terra e teneva il suo bicchiere, finì la sua banana ed esordì: “Mi hanno fermato mentre ero in macchina”.
    “Certo. Può capitare. Che avevi combinato?”
    “Niente... Cazzo, non avevo fatto niente, ma quelli mi hanno fermato e mi hanno guardato malissimo. Mi hanno fatto scendere e tenuto fermo mezz'ora, hanno controllato tutto e a un certo punto penso che uno voleva scassarmi il fanalino, si è avvicinato là dietro mentre quell'altro mi prendeva le generalità.”
    “Ma come scassare il fanalino...”
    “Ti giuro, si è avvicinato di nascosto ma l'ho visto ed ero senza parole. Si è fermato e sono scoppiato, gli ho detto 'Ma che volete, che volete? E' per il colore della mia pelle, vero? Lasciatemi in pace!'”
    “Cazzo Sun, non mi sbottare così di fronte alla polizia.”
    “Carabinieri...”
    “E' lo stesso” dissi, continuando a bere. La bottiglia era appoggiata vicino a un tavolino, versai un altro bicchiere.
    “Mi perseguitano, cazzo.”
    “Macché. Sono solo un po' stronzi. Gli servono soldi eccetera, poi in caserma se ne stanno a giocare a briscola. Altro che perseguitano... Dai”. Finalmente porta alle labbra il suo bicchiere e beve tutto in una volta. Gli feci cenno con la bottiglia e mi porse il bicchiere. Lo riempii. Calò il silenzio, poi riprese. “Mi guardano sempre tutti come se fossi un alieno.”
    “Ma va', per me sei interessante.”
    “I primi tempi mi guardavi sempre male.”
    “Era solo l'imbarazzo della cosa nuova. C'è chi sa superarlo, c'è chi no. Chi non lo sa superare non merita. E' semplice.”
    “Si facessero i cazzi loro...”
    “Già.”
    Pensai, e lo pensavo spesso, ma lui nel suo Paese c'è stato per meno di cinque mesi quando era appena nato. Tutte queste usanze sono assurde. Secondo me i genitori erano un qualche tipo di schizzati [non sarebbero mica venuti in Italia, se no] e gli hanno raccontato un macello di fregnacce. Ma non osavo mica dirglielo; glielo leggi negli occhi che non può rinunciare alle sue tradizioni. Non si tratta di arretratezza o che, ma l'ultimo appiglio al suo mondo, che suo non è mai stato, un'isola di appartenenza a qualcosa, quando non appartieni a niente. Mi raccontò che perse anche un paio di lavori a causa di questa sua fermezza; c'erano alcune cose che non poteva fare, non ricordo bene cosa, forse un maneggiare un certo tipo di metalli coi guanti.
    Andammo avanti a Four Roses fino alla fine della bottiglia, fissandoci dritto negli occhi e scolando bicchieri. Siamo tipi silenziosi. Ma poi mi supplicò di dire qualcosa con gli occhi.
    “Sei un tipo a posto, Sundae”. Sorrise.
    Lo era davvero.
    Il topic è a rischio censura (citaz.)

  4. #19
    Bokassa
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    Come saprete stasera termina il contest, come altrettanto saprete è d'uopo chiedere se è necessario posticipare di pochi giorni per permettere a chi è ancora indeciso o non ha ancora completato la propria opera di partecipare. Avendo già ricevuto un paio di richieste private in tal senso sarei propenso a far passare almeno questo weekend prima di dichiarare la chiusura ufficiale, ma attendo ulteriori comunicazioni da chi avesse realmente bisogno di qualche giorno in più.

  5. #20
    Blue L'avatar di kokkina
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    Citazione Bokassa Visualizza Messaggio
    Come saprete stasera termina il contest, come altrettanto saprete è d'uopo chiedere se è necessario posticipare di pochi giorni per permettere a chi è ancora indeciso o non ha ancora completato la propria opera di partecipare. Avendo già ricevuto un paio di richieste private in tal senso sarei propenso a far passare almeno questo weekend prima di dichiarare la chiusura ufficiale, ma attendo ulteriori comunicazioni da chi avesse realmente bisogno di qualche giorno in più.
    A me non dispiacerebbe qualche giorno in più, perché non credo di poter postare entro stasera. :/

  6. #21
    Anima Salva L'avatar di Lynn
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    Se non è un problema, chiederei anch'io qualche giorno in più.
    Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini.

  7. #22
    Oggettivista L'avatar di space king
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    Il Grillo

    “Passeggiare m’è salutare, decisamente. Portare un piede più avanti dell’altro, osservare dall’alto del busto ritto il meccanismo di oscillazione e compiacermi del riuscire a recuperare ogni volta il giusto ritmo nel portare l’altro piede più avanti del primo. Una marcia molle, melliflua, cadente ma ancora ritmica. Su un pavimento di pietra, grigio, striato d’ombre di gente ignara e di luci dal vago sapore orientale. Luci di svuotati locali ai bordi della pietra sotto i miei piedi. Sopra di me, un terso cielo oscuro, senza astri, senza stelle, senza nessun raggio, nessun barlume, nessuno scintillio, perché offuscato dal bagliore di quaggiù, o di qui dentro. Ombre sotto di me e ombre accanto a me, prossime o remote. M’è salutare sì, pensando da solo, ma preferisco avere qualcuno accanto, che taccia. Percorro la via in lungo, ma non in largo, evitando la frotta assiepata agli usci, bugigattoli di ristoro per la sete e per la mente. Una persona che mi sia accanto è necessaria, non importa che condivida, non importa nemmeno che si sforzi di comprendere. Una passeggiata avanti e una indietro, sorseggiando, ingollando, tracannando o talvolta assaporando. Talvolta anche parlando. Scambiando quattro chiacchiere, scambiando quattro argomenti, scambiando nessuna opinione. Scalinata di una città vecchia, volti apparentemente indifferenti, luogo eccelso e prescelto per volontà sociale. Di una società che appare logora nell’animo, e non per puro spirito vanamente critico o per uniformità a un pensiero comune che è facile da accettare, ma difficile da confutare. Camminando, si distingue tra i volti vacui di un illuso attivo, tra i visi abbacinanti di uno speranzoso fiacco, tra gli occhi di un disincantato reale. Che mi si perdoni una sentenza tanto goffa! Un gotto mistificato, acqua e luppolo, un ritmo cadente di passi incessanti, un fosco pavimento di pietra, le luci alle spalle, le ombre al di sotto. Ovunque mi giri un coacervo omologato di identità originali, mi assale come uno stormo di uccelli che fuggono da un pericolo, o forse sono io quello che sta assalendo loro, con un pensiero macchinoso e ingiurioso. Verosimilmente lo stormo potrei essere io, loro l’inerme vittima e la via il fittizio scontro campale. Una persona è necessaria, probabilmente per passare inosservato, per celare i miei pensieri, per rimanere al sicuro dai cazzotti sferrati senza sosta dagli astanti dissetati. A un povero solitario che siede sui gradini di una chiesa sconsacrata.

    Riflettevo sulla solitudine. Sui diversi tipi di solitudine, sulla percezione della solitudine altrui e su quella propria, sulla distorsione nell'avvertire la propria, di solitudine, sui fattori di disturbo, sulla propria coscienza, sulla consapevolezza di volere essere in solitudine e sul costruirsi una barriera di solitudine quando necessario. Ché una solitudine è anche un luogo fisico. Riflettevo che una delle peggiori solitudini è l'ansia, l'angoscia, la smania, lo spasmo della continua ricerca del contatto col prossimo e con quella solitudine ci si lacera velocemente, incoscientemente, come un siero, come una droga, che spegne la capacità di raziocinio e confonde e obnubila. Toccare la gente, sentirla, cercare il loro saluto, la loro approvazione, un ricambio, un qualsiasi gesto che possa fungere da contraccambio a un disperato vano contatto.
    E poi c'è un altro tipo di solitudine. Quella che si avverte incessantemente, la solitudine dell'incomprensione, il solipsismo dell'animo, che parla a sé perché non trova un corrispondente negli occhi altrui. Un continuo, incessante, snervante e appagante soliloquio con la propria persona, perché - e non per alterigia o superbia - si è coscienti comunque che il pensiero sia talmente complesso e distorto ché da gravare sul prossimo sarebbe estenuante.
    Poi c'è la solitudine dell'illusione, che prende il via da una presa di coscienza forte e da una apparente accettazione della propria condizione, e ci si dimostra forti, robusti, granitici nello respingere le alte onde dei dubbi e delle perplessità, ma di tanto in tanto il muro crolla e ci si vede costretti a fare i conti con la propria debolezza, con la propria natura, con l'essere semplicemente degli incompleti, limitati, imperfetti, macilenti umani.
    Si può aggiungere la solitudine dello sparviero, di colui che sa di essere solo ma che si erge soddisfatto di questo, che sogna tempi perduti e spazi remoti, bagliori, scintille, estasi e contemplazioni, sfogate nel rosseggiare di un tramonto, nell’imbrunire su un ruscello di collina o nell’albeggiare su una spiaggia deserta. Luoghi inesistenti se non negli occhi di chi vuol guardare, o nella mente di chi crede di capire, e non capisce. Non capisce che per quanto alto si voli, per quanto al di là si voglia andare, la propria esistenza, grave, pesa al di qua.
    Qualche altro tipo di solitudine, sparso qui e là, si può facilmente trovare: l’insoddisfatto che come Ulisse è stoltamente e saggiamente alla ricerca dell’estremo, che scorge nella solitudine, punta di diamante del contatto fra gli uomini; l’eremita che a differenza dello sparviero non vola alto, ma semplicemente sopra qualche testa, perché quelle teste le reputa inconcludenti, ché non concludono e non hanno conclusione; il viaggiatore, che percorre lunghe vie assolate o stellate, toccando col pensiero corde di una lira stonata, immerso in tutt’altri viaggi, da un capo all’altro dell’umanità; il cosciente, lo sciente, che è solo perché nessuno e nessuno e nessuno ha compreso tanto. Ma forse in fondo nessuno lo è né lo è mai stato.

    Mi risolvo a tirarmi via da quella strada per il delta più largo e svolto a destra. Ancora indorate lucerne riflesse sull’asfalto di un antico e logoro corso, ancora ombre ai miei piedi e accanto a me. Proseguo nel ritmo del mio passo, fluttuando fra colonne e vetusti portoni, ascoltando insensibile lo strano sciabordio nel rostro del mio incedere. Mi viene rivolta una parola, probabilmente mirata a sapere dove sono diretto o dove siamo diretti, ma non vi presto particolare attenzione. Un nuovo sorso, assaggio, e faccio per proseguire, ma ancora una volta vengo interrotto da una richiesta, una questua, fastidioso ronzio che interrompe il mio flusso di pensieri e l’attenzione che preferirei rivolgere al significato delle cose intorno a me in questo momento, se mai ve ne sia uno, chiaramente. Non provo una bella sensazione a dirlo, ma quel reclamo d’interlocuzione mi è maledettamente molesto, mi volto dall’altra parte e farfuglio qualcosa, ma evidentemente non basta. Il mio sguardo si fa attento verso un particolare, un fregio architettonico di un piccolo capitello che decora uno dei due lati di un vecchio ingresso imponente, di un vecchio edificio decadente. Un po’ distrazione, un po’ reale curiosità, il gesto non sortisce l’effetto che avrei desiderato e l’importuno si fa più assiduo. Finalmente quattro alti angoli si ergono a placare quel tumulto. M’è sublime alla vista l’imperio di ciò che è stato, che vorrei che sia ancora, che vorrei possedere. Non posso fare a meno di soffermarmi sul significato di questo stato d’animo, ma non ne trovo il bandolo. Le parole mi sono sgradevoli, le presenze irritanti, avverto come se tutto andasse contro la mia volontà di godere di quella storia. Alle quattro grandi edicole quattro grandi uomini, uomini sommi. Detesto questo sentimento, astio e invidia riversati nello stesso istante, centellinati nella smania di ottenere un frammento di quella grandezza, o forse ben più. Otto fianchi prestati al passato, vessati dal presente, come l’andriese fortilizio dello stupor mundi. Mi sento coatto, oppresso, schiacciato dal peso dei miei pensieri che bramerei rigurgitare addosso al primo essere umano che mi capiti a tiro. Cerco di spiegarmene il motivo, ma tutto quello che mi viene in mente in quel convulso circolo vorticoso di meditazioni escrementizie, è che questo guano non è stato interamente voluto da me, ché tutto il miasma che annuso è frutto di chi ha voluto incurante non curarsi, egoista negligente e verso il prossimo indifferente. Perché non importano le conseguenze delle nostre azioni, non importa quel che si dice o quel che si fa, non importa se lo stormo che assale sono io. L’importante è che il peso, dentro, intimo, sia esternato, veicolato, gettato fuori a chicchessia, per non doverlo vedere più, per non dover più farci i conti. Che la smettesse di continuare a parlarmi, ché voglio star solo con la mia voce impercettibile, diamine. Mi si lasci la libertà di metter un piede davanti all’altro e un’idea oltre la precedente, è stato già fatto abbastanza per la mia persona. Sento d’esser già saturo, ricolma l’otre oltre il possibile, dannazione. Desidero solamente star solo coi miei pensieri, espressione dannatamente abusata, impropriamente adusa, da tutti quegli stolti che incautamente mi passeggiano intorno, adesso. Che incautamente hanno rivolto parole ingiuriose nei miei confronti, che dovrebbero comprendere le conseguenze delle proprie azioni. Non credo meritassero, quegli individui, di possedere la libertà di dir ciò che si vuole. Poveri stolti dimentichi del valore della dignità umana, stuprata sovente dall’incapacità di riflettere. Non credo meritassero e non credo meritino. Mi delizierebbe davvero molto immaginare uno strizzacervelli leggere e ingollare i miei pensieri. Probabilmente accadrà. È necessario scovare nel disordine mentale quella congerie di reazioni che determinano l’impulso culminante! Sto seguendo le mie orme, ma non riconosco i miei passi. Quella congerie coincide con quel disordine, quel disordine collima con quell’impulso. Ancora, finalmente, mi accolgono due leoni, maestosi, e un’ampia scalea. Alla sommità lo spettacolo d’una fontana, vergogna dei cittadini. La vergogna delle loro paure, delle proprie insicurezze, dell’incapacità di affrontare ogni singolo dramma esistenziale, minuto, minuzie nella grettezza del loro essere mediocri, insignificanti agli occhi dell’umanità e del divino compendio. Gli occhi di un uomo, barbuto, che tracanna impavidamente il suo alcool, incrociano i miei, di fuga. Le sopracciglia folte, canute, crucciate, la fronte corrugata; lo sguardo torvo, ma i bulbi ben schiusi; e le iridi ben chiare; e le pupille ben dirette alle mie.

    In auto, tornando, è il mio di sguardo che si fa cupo. Le mani ben strette al volante e il busto rigido sul sedile. Ascolto della musica, ma non riesco a distinguerla, come il brusio di sottofondo di un paesaggio al crepuscolo. Risoluto, proseguo abbacinando l’asfalto coi fari, la tarda notte della comprensione. La notte è ancor più tarda e la città è più sola, quand’anche un barlume di vita volesse squarciare la profondità della tenebra, verrebbe senz’indugio travolto e rispedito nei meandri dell’evanescenza, negli abissi dell’inconsistenza. L’auto s’arresta, i freni s’allentano, i fari s’estinguono. Saldo, una mano alla portiera, già chiusa, con innaturale ardire superare ostacoli quali il tronco d’un sadico albero o il gradino astuto di un marciapiede. Poi m’incammino, copro la distanza fra il mezzo e l’architetto, ingegnoso acume di strutture portanti, nume della tutela, e la mente obnubilo. Adesso sono solo. Passeggiare m’è salutare, decisamente. Un piede avanti all’altro, il meccanismo d’oscillazione, il compiacersi. Una marcia aspra. Vigorosa, dura. La contemplazione di un attimo, il giogo estatico nell’assaporare un istante, quando le foglie rovinano inermi davanti al tuo sguardo e levando in alto scopri i rami ancora intatti. Ché davvero la foglia è inerme, ché davvero è sola, come la città, come me stesso, come gli altri, diversamente in egual modo; ed è proprio questo il fulcro, il nodo d’implosione che non mi riesce di dipanare, di sciogliere, gordiano, ché foss’anche scorsoio avrei saputo destreggiarmi, o fosse lineare, retto, probo, tutto, qualsivoglia inezia, avrei trattato con cura, adulterato con garbo; ed invece si ha la strana perversione del libidinoso render dissoluto quel che è puro, ingarbugliare persino l’aria, che respiriamo, che ingurgitiamo, che ci contamina, che ci corrompe, che mi logora. E si giunge nella penombra della nicchia del tempo, che si è trascorso, ove si è cresciuti, ove è accresciuta la muffa della mente. E ci si ritrova all’uscio, pronti per varcare la soglia dell’oscurità, perché le luci non sono accese, in questo momento nessuna luce è presente, nessun raggio a rischiarare il passato, nessun nitore al presente a trivellare dall’apice dentro il cranio. E quando si è dentro, non si è soli; nel tempo si è accanto a coloro che hanno offerto un contributo cospicuo a quel cranio, reso un servigio distinto per la genesi e il compimento di quell’orribile ammasso ch’è dentro di me. E l’attimo si corrobora nella certezza, nella persuasione di un segno ineluttabile. E viene il frastuono dello sconcerto, dell’incredulità; il fragore della reazione, della riluttanza; il clangore del ritmo incessante del mio passo che sopravanza quello altrui, sin quando s’esaurisce nel vermiglio riverbero di chi mi generò. E spasmi di vita, soffi di fiato, sbuffi sonanti, più celeri, più tosti, più lesti. Il dilemma, più che il problema, non è insito nelle norme etiche, di per sé facilmente eludibili, ma nell’ordine cosmico che si pretende plausibile all’interno di una palese imperfezione. Peccato. Avrei potuto conformarmi, invece ho ceduto alla tentazione. Non biasimatemi.”
    Ultima modifica di space king; 19-06-2008 alle 14:19:44
    Ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta,
    non donna di provincie ma bordello! (VI Purgatorio)

    Di rider finirai pria dell'aurora!


  8. #23
    Bokassa
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    Citazione kokkina Visualizza Messaggio
    A me non dispiacerebbe qualche giorno in più, perché non credo di poter postare entro stasera. :/
    Citazione Lynn Visualizza Messaggio
    Se non è un problema, chiederei anch'io qualche giorno in più.
    Da notare come le ritardatarie della situazione corrispondano esattevolmente a una donna e mezza.

    Entro stasera comunicherò l'entità del posticipo.

  9. #24
    Anima Salva L'avatar di Lynn
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    Citazione Bokassa Visualizza Messaggio
    Da notare come le ritardatarie della situazione corrispondano esattevolmente a una donna e mezza.
    Pfui.
    Entro stasera comunicherò l'entità del posticipo.
    Dunque... io ho scritto qualcosa, ma per ora è troppo breve per il contest, non rientra nel limite minimo. Siccome non vorrei sforzarmi troppo (perché non ha molto senso farlo, in fin dei conti) eventualmente lo posto come fuori concorso e chiedo scusa anticipatamente se vi ho fatto ritardare.
    Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini.

  10. #25
    Utente L'avatar di Lop
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    oh meno male posticipate, anch'io avrei bisogno di più tempo, ho buttato giù qualcosa, ma non è ispiratissimo... grazie del posticipo...

  11. #26
    Blue L'avatar di kokkina
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    Ho avuto una svista, e ho sbagliato a leggere il limite massimo di caratteri ._.
    Indi per cui il mio racconto è decisamente stringato, forse anche mutilato.
    Nonostante questo ho deciso di postarlo, in primo luogo perché ho chiesto dei giorni di tempo e quindi è giusto che io partecipi, e in secondo luogo perché potrei cogliere tra i vostri giudizi qualcosa che mi spinga a migliorare.



    Specchio

    Quella mattina, quando si svegliò, ebbe l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso nella sua vita.
    Si guardò intorno, ancora assonnato, continuando a percepire quella strana sensazione di estraneità, rasserenandosi non appena constatò che nulla, nella sua stanza, fosse cambiato.
    La sveglia, poggiata sul comodino, segnava le sette, e dalle persiane semichiuse filtrava una debole luce.
    Si alzò in piedi e si diresse in bagno, aprì il rubinetto e si guardò allo specchio.
    Ebbe un sussulto, perché per un istante non si riconobbe.
    Le sue guance erano più scavate del normale, e le occhiaie spiccavano prepotentemente sul suo giovane viso.
    Si domandò cosa avesse fatto la sera prima per ridursi in quello stato, ma gli sovvennero alla mente solamente immagini confuse.
    Si lavò il volto, si fece la barba e osservò nuovamente il suo riflesso allo specchio, rimanendo immobile per qualche istante.
    Scrutò attentamente i suoi occhi, troppo piccoli e sproporzionati, il suo naso, le sue sopracciglia folte.
    Si sentiva morbosamente affascinato dall’immagine intrappolata nello specchio, e provò paura per quell’improvvisa e immotivata attrazione, così fece una smorfia, e il riflesso lo imitò.
    Non era un gran bevitore, e non faceva uso di droghe, sicché gli sembrò importante ricordare dove fosse stato la sera prima.
    Si sedette sul letto, con lo sguardo fisso a terra, tentando di ricomporre le poche immagini che la sua mente gli suggeriva.
    Ricordava d’essere stato in compagnia d’un amico, e questa consapevolezza riuscì a sollevarlo, quasi fosse la conferma che non c’era nulla di cui preoccuparsi.
    Decise di proseguire le sue attività quotidiane, volendosi liberare al più presto di quell’opprimente senso di stordimento.
    Guardò fuori dalla finestra, cercando di non pensare a nulla. Il cielo era nuvoloso, ma non faceva presagire pioggia, e lo allettò l’idea di potersi fare una passeggiata.
    Mise in tasca le chiavi di casa, indossò il giubbotto chiaro, aprì la porta e uscì.
    L’aria gli scivolò lentamente nei polmoni, ed era fresca, pulita, rilassante.
    Si diresse deciso verso il mare, distante pochi minuti da casa sua.
    Mentre camminava cominciò a sentirsi svuotato, senza motivazioni, e fortemente solo. Era come se su di lui gravasse una profonda perdita, un dolore addensato nel petto, che si fece via via così forte da costringerlo a fermarsi.
    Si mise una mano alla tempia, che cominciò a dolergli violentemente, e trattenne a stento un urlo di panico.
    “Ma cosa..?” esclamò. E rabbrividì, terrorizzato, perché quella che aveva udito non era la sua voce.
    Non poteva esserla, perché la sua era molto più rauca, molto più profonda.
    Il respiro si era fatto più affannato e non riusciva più a regolarlo. Gli si offuscò la vista e cominciò ad udire uno stridio acuto, continuo, così forte da spingerlo a tapparsi le orecchie.
    Avrebbe voluto gridare, ma la sua voce gli si spense in gola.
    Cominciò a barcollare, con le mani ferme strette sulle orecchie e il volto deformato dal dolore. Barcollò e cadde, supino, senza protezione alcuna.
    D’improvviso piombòil silenzio, e il cuore riprese il suo consueto battito.
    Rimase fermo immobile per interminabili istanti, e nessuno si accorse di lui.
    Quando cominciò a sentirsi meglio decise di alzarsi, e di dirigersi al pronto soccorso.
    Era sconvolto, e le lacrime, che non sapeva di aver versato, gli coprivano il viso.
    Camminava ormai da parecchi minuti, e non aveva incontrato anima viva. Si fermò all’improvviso, davanti al vetro opaco di un’auto parcheggiata lungo la strada.
    Si avvicinò lentamente e si specchiò.
    Il riflesso restituiva un’immagine deformata, affatto nitida.
    Strinse gli occhi a fessura e si concentrò sull’immagine.
    I suoi capelli erano arruffati, una massa informe. Gli occhi erano enormi, spropositati, e le guance piene.
    Cominciò a boccheggiare, mentre si allontanava atterrito dalla visione.
    Quello non era lui, non poteva essere lui.
    Cominciò a correre, inciampando più volte, voltandosi di continuo, inseguito da se stesso.
    Cadde carponi, e non riuscendo più ad alzarsi si trascinò fino al muro di fronte a lui, si rannicchiò su se stesso e cominciò a tremare violentemente.
    Intonò una nenia, senza volerlo, e si rese conto di non essere più la stessa persona.
    Le sue mani, il suo volto, la sua voce, niente era più come prima.
    Faticava a crederci, e cominciò a toccarsi in maniera spasmodica, cercando conferme di quanto aveva visto, e desiderando ardentemente di non avere più quell’orrendo aspetto.
    Cominciò a ridere, in maniera incontrollata, a crepapelle.
    Rideva e nello stesso tempo le lacrime gli sgorgavano copiose dagli occhi, e rise più forte.
    Si affondò le unghia nel braccio, fino a farlo sanguinare, e non smise un attimo di ridere.
    Si strappò la carne di dosso, e rise ancora più forte.
    Guardò le sue mani insanguinate e le leccò violentemente, mentre gli occhi luccicavano dalla gioia.
    Si scavò il viso con forza, nel vano tentativo di riappropriarsi della propria identità, di quelle sue guance incavate, dei suoi occhi piccoli.
    Si leccò le labbra, e proseguì il suo lento dilaniarsi.

  12. #27
    Bokassa
    Ospite
    Come detto, posticipo di pochi giorni la fine ufficiale del contest per permettere a chi volesse di postare la propria opera.

    TERMINE ULTIMO: mercoledi 11 giugno alle ore 23.59. Subito dopo verrà aperto il thread per le votazioni che durerà verosimilmente 9 giorni, fino al venerdì successivo, così da iniziare subito l'altro contest col favore del fine settimana (magari non ve ne frega niente, ma è frutto della mia alienata mentalità da lavoratore d'ufficio col weekend libero ).

  13. #28
    kappa-umano L'avatar di fiffo
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    I miei amici sono scaduti. Non è qualcosa per cui possano essere biasimati. Avariati, come il latte. Ho ancora bisogno di loro, però. Di amici, intendo. Non ne ho molti. Non sono un tipo molto sociale, e non mi piacciono i tipi molto sociali. Nessun problema a livello esistenziale, è una questione di pelle. Più o meno. Mi piace la gente a cui piaccio; per piacere alla gente ci deve essere qualche motivo e siccome io non sono bello e non sono brillante né acuto e non ho la battuta pronta o cose del genere, alla gente deve piacere quello che faccio; quello che faccio sono cose stupide e sono le cose stupide che mi hanno fatto. Stupide, ma non insulse, qualcosa come potrebbe essere un poema epico su un coniglio alle prese con una bicicletta di nome Martha con la acca. Ok, anche insulse, ma con un proprio perché e qualcosa dietro. Lasciamo perdere. E poi mi piacciono le persone poco sicure di sé, asociali, nauseate e con discreti sbalzi di umore.
    Visitando myspace, ho scoperto la funzione esplora. Ho selezionato come criterio di ricerca una distanza da casa mia di massimo dieci chilometri, un'età tra i sedici e i venti e ho cominciato e sfogliare, senza pensarci troppo su. Sfogliavo e giudicavo persone in vetrina. Affascinante. Alla fine è quello che facciamo inevitabilmente con chiunque, ma con myspace è così semplice e senza fronzoli, una cosa così naturale e pulita. Alla fine è essere sinceri con se stessi e col mondo, vorrei mai essere amico con uno che ha in camera il poster di Maria de Filippi?, no. Scorro insomma davanti agli avatar buffi di questi tizi esposti e mi accorgo che la percentuale di conoscenze scartate a priori è altissima, esattamente come lo sarebbe in un bar o dovunque. I criteri sono svariati... di certo non vorrei approfondire la conoscenza di qualcuno che ha come foto personale una foto dall'alto con ciuffone, effetti grafici e cuoricini o occhiali da sole, né di qualcuno che scrive giulia come -^^-*JuLy@*-^^- eccetera. Di ventiquattro pagine ho salvato dieci utenti. Uno va pure nella mia scuola ma lo scarto perché tra gli eroi ha l'autore di Eragon. Altri li scarto perché hanno messo di sottofondo allo space canzoni orribili, altri perché, seppur ben nascosti, hanno ficcato da qualche parte nello space dei cuoricini. Ho qualche problema coi cuoricini. Uno sembra davvero in gamba ma scrive in inglese e forse è un po' troppo intelligente e farei brutta figura. Un'altra è alla continua ricerca di persone ke nn hanno paura di confrontarsi ma lo scrive con la cappa quindi ciao. Alla fine resta solo una ragazza. "Francesca". Consultando il suo space noto che ha molti amici ganzi, e la cosa non mi piace, però sembra simpatica, autoironica, roba così e ha pure un link ad un video dei teletubbies. Dice anche di essere un criceto, perfetto. Leggo qualcosa, però, e mi sembra troppo sicura di sé, e tra l'avere la sensazione che il mondo sia una cosa poco seria e il muovercisi dentro perfettamente a proprio agio, esiste la stessa differenza che c'è tra l'avere il senso del comico e l'essere ridicoli, diceva Gaber, in un contesto più adeguato ma ci siamo capiti. La scarto definitivamente quando mi accorgo che è più alta di me di cinque centimetri. Un po' mi dispiace.
    Intanto che frugavo nelle vite di questa gente, il disco che stavo sentendo è finito. "La stravaganza", Vivaldi. Ascoltare musica classica dà un discreto tono, e poi speravo di trovarci dentro dell'illuminazione, ma niente di che. Quando cerco qualcosa non lo trovo mai. E' così anche per i calzini. Avrei dovuto ricordarmelo prima di perdere un'ora su myspace. Speravo che potesse essere diverso, ma non è così. Mi sdraio sul letto e penso. Penso che sono solo, ora che i miei amici sono scaduti, sono solo e non ho voglia di cercare, perché - e ne ho avuta un'ulteriore prova - a cercare si risolve poco. Certo, anche stare qua sul letto non sarà probabilmente molto fruttuoso, ma è perlomeno riposante. Mh. Deprimente. Allungo la mano e riavvio La Stravaganza, vorrei cambiare disco ma sono troppo pigro. Penso ancora, ma con sottofondo di violini. Finirò i miei giorni sdraiato su questo letto per inerzia, se non trovo un amico. Più che un supporto è una necessità, mi dico. Mi rigiro a pancia in giù. Sospiro. Domani provo su facebook.
    Ultima modifica di fiffo; 9-06-2008 alle 01:12:06
    Se noi dovessimo agire in stretto accordo con la ragione, dovremmo negare la nostra stessa esistenza. Il fatto che Voltaire, il quale deificò la ragione, abbia goduto di una vita lunga e felice, mostra come gli esseri umani si trovino ad uno stadio d'evoluzione inferiore a quello dei kappa.
    - Mag, Kappa filosofo

  14. #29
    Anima Salva L'avatar di Lynn
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    «E mi coinvolge l’eterno gocciolare
    e il tempo sopra il viso di un passante
    e il chiedermi se nei suoi occhi appare
    l’insulto di una morte o di un’amante
    …»
    (Francesco Guccini, Vite)



    Intermittenze



    La differenza tra chi sceglie di oscurarsi e chi è oscurato dagli eventi è nel numero di conati di vomito che la sua storia provoca. Una nausea mi pervade.
    Un disordine nel cuore: ho rovistato nella mia memoria, ho trovato vite insignificanti e onnipresenti, volti grigi, facce spente, circostanze. E poi vite sbagliate, lampeggianti, stanze chiuse senza via d’uscita: vite intermittenti, buio su luce, eventi su vite.

    La tela nera di un dipinto funesto.

    Tra queste ombre mi dimeno in cerca di un barlume di luce. Qualcuno spegne le proprie candele, altri le trovano già spente.
    La colpa, il merito.
    La scelta, l’obbligo.
    Casualità.

    La tela si tinge di una macchia rossa.

    Coito interrotto, un piacere che non può sublimarsi. C’è chi trova il tragitto sbarrato e chi decide di tornare indietro perché non se la sente. C’è chi rischia e chi è travolto, lo sfacelo è lo stesso.

    Questa macchia rossa sulla tela è sangue.

    Una corda al collo, due lividi ogni sera e un’auto contro un albero: ogni tumulto è uguale all’altro, non lascia che disgusto.
    Troppo buio intorno a voi. Se trovassi un nitore tra queste tenebre potrei indicarvi la via. E se la luce ci accecasse? Se fosse troppo innocente?
    Quando tutto è illuminato il buio fa più paura. Abituarsi alle luci spente fa apparire illusoria l’alba. Chimera.

    Sulla tela c’è un graffio.

    Il mio riflesso allo specchio è un fantasma che arriva dal passato e mi sussurra di voi. Un’ombra avvelenata e marcia che non può redimersi.
    Piume contaminate da ricordi che diventano massi.

    Il graffio è uno squarcio.

    Confronto, identificazione, sdoppiamento.
    Rimarrò al buio.
    Osservo piuttosto che agire. Soffro del dolore altrui. Potrei accorgermi di esistere da un momento all’altro.
    Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini.

  15. #30
    Utente L'avatar di Lop
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    “ Cosa ci faccio qui?
    Sul serio! A chi interessa la mia esistenza?
    Ho una famiglia certo, loro mi vogliono bene.
    I miei sono ancora sposati, tutto sommato stanno bene insieme.
    Mia madre è un po’ repressa, nella vita non ha mai raggiunto gli obiettivi che si era prefissata, ma se ne è fatta una ragione e adesso fa la casalinga, passa le serate a vedere stupide fiction alla televisione, piuttosto che passare la serata anche solo a vedere un film tutti insieme.
    Su mio padre ho dei dubbi; alcune volte mi sembra stanco della vita, che non gli sia andata bene come sperava, che ciò che ha ottenuto non gli dia stimoli. Ha poca iniziativa, è molto pigro, spesso scherzo molto con mio padre, ridiamo parecchio, ma non condividiamo niente insieme.
    Mia sorella ha quasi venti anni, credo sia una tra le ragazze più belle che conosco, ha un bel fisico, è sicura di sé, ma è davvero stupida. Ha anche lei le proprie idee, come tutti, ma sono idee prese un po’ qua e là, non si è mai fermata a riflettere veramente, su cosa l’aspetta, su cosa farà.
    Anzi lei crede di avere un buon rapporto con me, si confida spesso, forse per sfogarsi, anche perché con i suoi ‘amici’ sarebbe impossibile farlo. Sono una massa di idioti, tutti sui venticinque anni, che non hanno futuro, egoisti del cazzo che non sanno neanche perché sono in un gruppo del genere, credono che le risate che fanno sia indice di una buona amicizia. Credono che l’aver passato gli ultimi dieci anni allo stesso circolino e ogni sera essere andati per le discoteche o nei pub, gli abbia uniti come gruppo; l’aver passato diverse vacanze insieme ed essersi ubriacati e divertiti come scemi gli sia servito a essere un gruppo unito.
    L’amicizia non è solo questo, certo momenti così sono bellissimi e anzi aiutano a svagarsi e a non pensare, a mandare in culo il mondo e a dire “chi cazzo se ne frega se va tutto a rotoli! Io sono qui! Esisto e mi diverto, sono in pace con me stesso e con gli altri! Per una sera, per un’altra ancora, sto vivendo al massimo concepibile”. Forse sono geloso di momenti del genere.
    Da una parte sì, ma si tratta solo di avere la macchina, vorrei averla.
    Mio fratello è piccolo, ha poco più di dieci anni, forse è l’unico che si salva, ma non per molto. Se continuerà a stare con le persone con cui sta ora gli verranno inculcate le solite idee banali, trite e ritrite, frasi in cui crederà anche lui e che porterà avanti senza mai capirle a fondo o senza mai essersi soffermato.
    Sono contento che mio fratello e mia sorella siano belli, anche se per mio fratello è un po’ presto per dirlo, viene sicuramente su bene. Ma sono contento per il fatto che saranno facilitati a vivere, che non dovranno dare tante spiegazioni di quello in cui credono, basterà la loro presenza vuota, il loro sorriso finto, la loro capacità di stare con le persone e di essere alla mano e la loro capacità di staccarsi da esse e non prenderne nessun insegnamento.
    Anche verso il cane provo indifferenza.
    Infine ci sono io.
    Forse il più brutto fra i tre fratelli, anche se mia sorella ogni tanto mi vorrebbe infondere coraggio dicendomi che sono diventato un bel ragazzo, in verità lo dice per se stessa e per non voler credere di aver un fratello sfigato, una come lei non se lo potrebbe permettere, a una come lei non può bastare essere una gran figa, deve avere tutto figo, dal cane alla macchina, ai componenti della famiglia.
    Fanculo a tutti e tutto.
    La mia famiglia mi fa schifo, non ci posso fare un confronto come vorrei, non posso essere me stesso. Mia madre quando in una discussione è con le spalle al muro mi manda a fare in culo.
    Mio padre comincia a urlare, o se ne va sbattendo quello che hai in mano in quel momento.
    Mia sorella non prova a capire e scuote il capo, facendo commenti del tipo “per me non sei normale” oppure dice che ho una visione binaria e che con me è impossibile parlare, perché o vedo bianco o vedo nero.
    Idioti del cazzo.
    Molti forse penseranno che ho un discreto culo ad avere una famiglia unita, che passa ancora pranzo e cena tutti seduti insieme a parlare di come ci è andata la giornata.
    La mia è una continua maschera, fermarmi a discussioni in cui non posso dire completamente il mio pensiero.
    Anche là fuori è così, la gente non capisce, o non ha voglia di ascoltare, pensa a sé e basta, crede che la propria vita valga sempre e comunque più degli altri, non è mai disposta a sacrificarsi. Spesso quando posso cerco nel mio piccolo di aiutare, di fare qualcosa, trovo che ci siano persone che hanno molto più diritto di stare a questo mondo di me e che continuino tranquillamente la propria esistenza.
    Forse se avessi aiutato di più un mio amico, adesso non rischierebbe la bocciatura, e lui è veramente capace, è proprio intelligente.
    La mia amica mi dice che dovrei ringraziare di essere al mondo, di essere sano, di poter fare bene o male quello che voglio, di avere una famiglia, e di pensare alle persone che non hanno questa possibilità e per questo sfruttare tutto quello che la vita mi offre.
    Forse ha ragione, ma ho sempre fatto finta di essere me stesso, ho sempre pensato al giudizio degli altri: a vivere in funzione degli altri perché non dovessero venire a confrontarsi con il mio problema, a evitargli questo.
    E adesso per una volta che penso a me! Che sono un egoista! Che penso a quello che voglio! Mi viene detto di accontentarmi.
    Io non ci sto.
    Ho scritto un biglietto.
    Senza spiegazioni, non ne hanno bisogno, tanto non capirebbero e comunque è bene che rimangano col dubbio.
    E adesso farò quello che molti penseranno uno degli atti più egoistici che esistano, ma chi se ne frega!
    Il cappio è robusto, dovrebbe reggermi…
    Ultima modifica di Lop; 18-06-2008 alle 19:56:12

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