Contest di scrittura - THREAD UFFICIALE (all'interno i dettagli)
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Discussione: Contest di scrittura - THREAD UFFICIALE (all'interno i dettagli)

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  1. #1
    Bokassa
    Ospite

    Contest di scrittura - THREAD UFFICIALE (all'interno i dettagli)

    L'avevate richiesto, "qualcuno" ha tergiversato, ma eccolo qui, pronto a soddisfare la vostra necessità di scrittori in erba (che sia figurativa o fumata non fa differenza).

    Poche, pochissime e stringate regole, non eccessivamente rigide ma che delineano un percorso ben specifico, eccovele.

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    1)TIPOLOGIA DELLO SCRITTO: Racconto breve

    Domanda di contestazione o lamentela: Perchè hai scelto il racconto breve e non la libertà espressiva o altre forme di scrittura?

    Risposta:

    Citazione Guo Jia
    Niente romanzoni, niente dispersione. Opere brevi ed intense.
    C'è un'altra motivazione, a dire il vero: racconti brevi significa più gente disposta a leggerli tutti, per intero, senza barare e votare uno dei pochi che si ha avuto il coraggio di leggere fino in fondo. O perlomeno si spera, per il resto conto sulla correttezza degli utenti.
    ---------------------------------------------------------------------

    2)LUNGHEZZA DELLO SCRITTO: limite minimo di 4000 caratteri, limite massimo di 15000 caratteri.

    Domanda di contestazione o lamentela: perchè hai fissato dei limiti?

    Risposta: io stesso ho storto il naso al pensiero di fissare limiti di carattere, ma erano necessari per poter dare un significato pratico al tipo del racconto scelto.
    Il limite minimo si rende necessario per impedire la proliferazione di racconti eccessivamente brevi che poi tali non sarebbero e tutto sommato si tratta di un limite non eccessivamente basso nè alto.
    Il limite massimo è fisiologicamente necessario onde evitare i già citati romanzoni.
    Vi renderete comunque conto che sono abbastanza equilibrati, diciamo che sono compresi tra una e quattro pagine di word.

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    3)METODO DI VOTAZIONE: si votano i tre migliori racconti più un voto "speciale", sulla base del metodo sviluppato da Mvesim nei suoi contest, quindi avremo

    - Primo posto: 9 punti;
    - Secondo posto: 6 punti;
    - Terzo posto: 3 punti;

    - Voto speciale (facoltativo): 3 punti.

    Il voto è aperto a tutti, partecipanti e non. Chiaramente i partecipanti non potranno votare il loro racconto.

    Domanda di contestazione o lamentela: Perchè hai eliminato i premi presenti negli altri contest? E cosa rappresenta il voto speciale?

    Risposta: ho preferito sintetizzare quanto più possibile la fase di giudizio, lasciando dunque la fondamentale "classifica" con i 3 racconti preferiti ed eliminando quei premi che tutto sommato erano ridondanti e troppo spesso andavano a braccetto con la stessa classifica di gradimento (e mi sembra pure ovvio), in sostituzione ho inserito la possibilità facoltativa di dare ulteriori 3 punti ad un racconto secondo la motivazione che il votante riterrà più opportuna (Esempi: "Tizio con il suo racconto mi ha ricordato il mio porcellino d'India morto soffocato 5 anni fa, gli do 3 punti per questo").

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    4)DURATA DEL CONTEST: due settimane a partire da oggi, quindi dovrete pubblicare i vostri racconti entro e non oltre le 23.59 di venerdì 6 giugno.

    Domanda di contestazione o lamentela: perchè non lo fai durare di meno? Perchè non lo fai durare di più?

    Risposta: la durata media dei contest è sempre stata questa, permette di avere due fine settimana a disposizione per poter scrivere senza essere oppresi dagli impegni feriali e in generale è un tempo accettabile vista anche la tipologia del racconto e la necessità di limarlo (qualora ce ne sia bisogno) per farlo entrare nei limiti.

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    5)TEMA DEL CONTEST: Il diverso.

    Domanda di contestazione o lamentela: eh? Che vuol dire "il diverso"?

    Risposta: in molti chiedevano un contest a tema libero, onde evitare eccessiva dispersione tra gli argomenti mi sono limitato a offrire un tema-non tema, una "dimensione", quella del diverso, che è possibile interpretare secondo infinite sensibilità per esprimerla attraverso infinite direzioni. Non c'è alcun vincolo da questo punto di vista, starà agli scrittori la capacità di esprimere nel loro racconto, qualunque storia vogliano raccontare, il diverso.

    P.S. E' per questo che temporeggiavo, avrei voluto accompagnare la presentazione del tema in un'altra maniera, per dargli un po' di credibilità e non farlo sembrare un mero appiglio, ma non mi è più stato possibile.

    ---------------------------------------------------------------------

    Direi che è tutto, se ho dimenticato qualcosa fatemelo notare, qualunque cosa abbiate da dire ditela, nel bene, nel male e nell'indifferente.

    In questo thread verranno postati i racconti, per eventuali discussioni sulle regole possiamo utilizzare l'altro thread già avviato, così da separare le due cose.

    Grazie a tutti per la pazienza, spero partecipiate numerosi.

    Buona scrittura!

  2. #2
    el Bunkyo L'avatar di Bunky
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    Ottimo lavoro Bok! Tema interessante, se mi viene un'ispirazione parteciperò.

  3. #3
    La Nausèe
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    Citazione Bunky Visualizza Messaggio
    Ottimo lavoro Bok! Tema interessante, se mi viene un'ispirazione parteciperò.
    Quoto, ottimo lavoro. Considerati impegni di maturità, proverò a scrivere qualcosa

  4. #4
    HERMUS
    Ospite
    SUM “ZOMBARE”, EGO # UTOPISTA


    Perché sto scrivendo? Sicuramente perché domani mi comprerò il dizionario dei sinonimi e questa sarà la scusa per utilizzarlo. No, non sto scherzando, è proprio questo il motivo, nessun motivo etico o morale, neanche per sfogo… e figuriamoci per motivi nazional-patriottici. Io sto scrivendo solo per poter utilizzare al meglio il mio nuovo dizionario… si, lo so, è un motivo abbastanza gretto, però almeno è veritiero, cioè non mi proteggo dal buonismo come fanno alcuni lecca culo…anzi…mhhh…ora che mi ci fai pensare, c’è un altro motivo: il parere del lettore, il quale mi provocherà ogni volta del piacere perché gioisco ad ogni commento perché in ogni commento rileggo l’oggettivazione della mia esistenza sia come uomo sia come scrittore, incapace o meno…ma almeno per il lettore sono a avrò la fama di scrittore…
    Ma anche il piacere mi interessa, perché se il lettore non prova piacere per una mia lettura, abbandonerà lo scritto, quindi abbandonerà l’idea di commentarmi, e il mio piacere se ne và a puttane…
    Detto questo, posso confermare con altre parole ciò che prima ho detto, che io, non scrivo per me, ma solo per il lettore, scrivo solamente per il piacere che questa azione mi provocherà. Si, avete ragione, sono un estremo materialista, però che posso dirvi? In una società dove i valori si sono smarriti per cose futili, che volete dai suoi abitanti? Cose diverse? Se siete contrari a me siete solamente degli utopisti, dei diversi…
    Se ti interessa (tanto anche se non interessa io lo dirò lo stesso, perché la scrittura è immortale e nessuno cambierà le mie parole, una delle mie poche consolazioni…però sono buono, se non ti interessa segui questo segno “*” che è in fondo allo scritto) sto scrivendo durante gli intermezzi pubblicitari di un telefilm, è carino, sai, in particolare mi ha colto una scena particolare: una donna che si sveglia in un posto sconosciuto; mi piacerebbe svegliarmi in un posto diverso, sarebbe veramente interessante: svegliarsi e trovare ciò che non si è mai toccato, un diverso dell’esistenza primaria (che tanto primaria non è). Scommetto che a te non ti piacerebbe una diversa esistenza, ma perché? Il diverso e ciò che è nuovo, ciò che rompe nella quotidianità, e di solito il cambiamento provoca paura…ma ad alcuni eccita la curiositas, proprio come me, una sola parola? EVOLUZIONE!
    Ritornando a noi, su due piedi, ti piacerebbe cambiare la tua vita? Cioè risvegliarti in un posto misterioso?
    Ribadisco, a me piacerebbe, credo che come ora come ora, sia un po’ noiosetta la mia vita…STOP!
    Sto parlando di me e questo non và bene, come ho detto la mia scrittura và alla ricerca del mio piacere e il tuo piacere e il tuo piacere non consiste nel fare una mia autobiografia, anzi, ora dirò di cosa parlerà questo scritto:
    sinceramente non ne ho la più pallida idea di cosa parlerà questo scritto, anzi forse fra qualche secondo eliminerò questa stravagante idea e butterò letteralmente nel cestino questo file world; però non penso di aggiornare questa introduzione quando avrò le idee più chiare, anzi…no…no..no… fatemi riflettere un’attimo:
    Ok…
    Fatto… La storia credo che parlerà di un extra-comunitario insultato e sbeffeggiato da tutti per il suo abbigliamento esotico ma poi una ragazza lo difenderà, una cosa originale da dire…emh..ma quando finisce questo cavolo di tele-film? È dalle 9 che lo guardo e già sono le 11:11, mha… pensavo, siccome non sto seguendo nessun canone di scrittura, potrei scrivere come titolo per questo racconto “Parole in libertà”, peccato che già Marinetti l’ha fatto nel suo manifesto futurista; ovviamente tutto questo discorso lo sto dicendo per dirti che sono istruito, quindi una lode che sicuramente trasparirà nei tuoi commenti, già immagino “Che scrittura, rompe tutti i canoni, l’autore fa una satura (altra freccia nel mio arco, satura è il termine arcaico di satira) veramente pungente ed innovativa nella sua prosa, a tal punto che si auto-ironizza con stile”. Ma..
    Come ho già detto non voglio parlare di me, quindi ora vorrei chiudere il discorso perché dovrei andare a letto, finisco l’esordio dicendo che la prossima volta le mie citazioni letterarie non le spiego: capito che faccio un romanzo solo per il lettore, ma il mio lettore dev’essere discreto! (ok, è l’ultima volta, ma questa era una difficile, qua c’è un’altra citazione letteraria, notate il termine discreto, non vi dice nulla? Bho non so, forse un certo ‘600, accompagnato ad un certo Galileo…).
    E’ strano, qua il tempo sembra non esistere, per te è passato un rigo ma per me dall’ultima parola è passata ben mezza giornata, non è diverso questo modo di guardare la letteratura? Il tempo sembra non esistere, è incastrato in lettere che se unite in un certo modo formano parole, le quali dovrebbero servire a dare simboli alla realtà. La lettera è la legenda per leggere le molte sfaccettature che i simboli ci offrono.
    Questo discorso può essere utile per spiegarti che l’extra-comunitario l’ho eliminato nelle possibilità di scelta (tanto a chi interessa le avventura di uno cencio? Meglio puntare sull’aspetto usuale del mondo fenomenico, come ho detto la mia scrittura punta sul piacere del lettore, il quale ne ricavo il mio piacere) ma ora è quasi sicuro che un’ambientazione sarà una scuola, condita da turbe amorose, o forse no? Sai, un’esteta come me non prende mai la decisione, vive sempre l’attimo, forse ecco perché mi piace scrivere, forse perché posso congelare l’attimo per levigarlo sul momento fino a trovare una forma perfetta, bho, chissa…
    Un’ultima cosa, siccome mi son comprato il dizionario dei sinonimi oggi, da ora lo userò spesso, quindi forse, molte frasi ti risulteranno da difficile interpretazione perché sono diverse dal normale, però ti consiglio di non demordere, non avere paura e soprattutto non ti seccare per questo impedimento, usa motori di ricerca per capire il significato delle mie parole, se non l’ho vuoi fare, addio, ho già detto che i miei lettori li voglio discreti, quindi devono saper discernere da ciò che dico e ciò che non dico, ma soprattutto da ciò che voglio e ciò che non voglio.
    Bene, caro lettore, finalmente ho trovato un terzo motivo per scrivere…ovviamente per vincere!
    Ebbene ora sto scrivendo per vincere un concorso letterario e siccome avevo questo file word stropicciato, pensavo di riciclarlo (sai, il buon capitalista non butta mia le cose, come la nostra madre natura, la quale trasforma sempre le sue energie in altro) per partecipare a questa gara. Il tema è l’equipollente (ricordati che sono nella fase del dizionario) ed ora scriverò banalità, farcite da un apocrifo perbenismo conformista irradiato dal supporto delle grandi (o basse?) sofie moralistiche di stampo illuministico (come non ricordare Rousseau???) e dall’evoluzionismo ottocentesco. Iniziamo:

    Secondo me il diverso è come una peripatetica, viene sfruttato per poi gettarlo via. Ciò, dico che il diverso, in quanto tale, è diverso, cioè sto spiegando che il diverso non ha le nostre stesse qualità, quindi è carente di alcune qualità, che lo fa rendere diverso. Queste qualità mancanti, in quanto qualità mancanti lo rende un’incognita, perché il normale in quanto tale (“2*”, guardate in fondo allo scritto), può fare certe cose, e il diverso, in quanto diverso, a causa di certe qualità che non ha, non può fare certe cose, che il normale, il quale ha quelle qualità, le può fare. In tutto ciò nasce la paura, perché il normale, consapevole che può fare certe cose, vede nel diverso uno che non può fare certe cose ed ha paura che il diverso continuerà a non poter fare certe cose (secondo lui), creando così uno squilibrio dagli esiti incerti. Io non tutto questo, dico che il normale deve aiutare il diverso a diventare normale perché così facendo il diverso non avrà più qualità mancanti ma sarà normale, con le stesse qualità dei normali. Io, per esempio, nel mio piccolo aiuto una rumena, la quale pulisce la mia casa. Infatti ogni volta che entra nella mia casa, durante il tempo libero, gli insegno la mia lingua, la mia storia, la mia morale, il mio stato e la mia religione. Sembra che sto perdendo inutilmente il mio tempo ma a poco a poco non solo la rumena parla sempre meglio il mio italiano ma con un sorriso sulle labbra parla della sua diversità come un brutto ricordo, anzi vuole cambiare religione e appena possibile investire il suo capitale per aumentarlo sempre di più.

    Speriamo che vinco, mio amatissimo lettore, sai, io ho detto ciò la gente vuole sentire, perché se dico altro, la gente diventa confusa ed inizia ad farsi tanti, anzi troppi quesiti, ed io come ho già detto, voglio dare il piacere, la sicurezza, ai miei lettori e non il dubbio filosofico, quello che ti rode dentro, quello che ti scopre il velo, quello che ti fa iniziare a dubitare di tutto, persino da te stesso.
    Ora ti lascio, spero che ti abbia procurato il piacere e la sicurezza della tua normalità. Spero inoltre nel prima possibile un tuo commento, e se hai trovato nelle mie parole cose che non dico, continuami a leggere, forse non sei l’unico utopico in questa totalità.
    Cogito, Ergo sum.

    * Se non ti interessa ciò che faccio allora non ha capito un caxxo di letteratura, vai a contare l’abbaco con le formicole.
    2 * E chi sono per giudicare che io sono il normale? Nessuno è normale, siamo tutti diversi, la normalità nasce dalla convenzione e dalla matematica.
    Ultima modifica di HERMUS; 24-05-2008 alle 18:50:48

  5. #5
    Cr0n0_
    Ospite
    Premessa: Se c'è una cosa che odio, ma veramente tanto, è quella di dover dare una spiegazione a ciò che scrivo, di fornire una stupida didascalia del cazzo che faccia in modo che tutti siano in grado di cogliere il senso del mio racconto. Ma se c'è una cosa che odio ancora più di questa, è quella di dover giustificare una mia scelta stilistico/formale/narrativa.

    OK, detto questo, purtroppo in questo caso mi trovo costretto a fare entrambe le cose. C'è solo un motivo per il quale ho deciso di violentare me stesso con un grosso dildo da 13cm di diametro: Voglio evitare che qualcuno gridi al plagio, che mi accusi di aver copiato o cose del genere.

    In effetti questo mio racconto è un grande, immenso, plagio. Inequivocabilmente. Niente è stato creato da me, nessuno dei periodi che compongono questo racconto deriva da una mia idea originale.

    Forse il titolo poteva essere sufficiente per capire, o forse no. Comunque il protagonista di questo racconto sono io o, meglio, è la mia interazione con un ambiente ed una situazione. Un locale, il concerto è finito, un improvvisato deejay inizia svogliatamente a mettere un disco dopo l'altro. Qualche pezzo mi colpisce, altri no. Inizio a pensare...cerco un filo conduttore, mi racconto una storia. Una storia raccontata da altri, tante voci che si intersecano inconsapevolmente, tanti grandi autori che sanno raccontare la mia storia meglio di quanto possa fare io. E' una storia diversa, ma da cosa, poi? E' soltanto pigrizia? Furbizia, forse? Non so rispondere, lascio a voi giudicare se questo racconto possa essere accettabile per la partecipazione al contest.

    Lascio a voi giudicare se questa premessa faccia parte o meno del racconto stesso. Da qui in poi inizia il mio viaggio nella musica, mentre mi accascio sull'ultima poltroncina in fondo al locale, fatto, disfatto, con un'erezione mentale indotta dagli accordi in sottofondo e dai miei pensieri che cercano un appiglio, una coerenza che però fatico a trovare. Resta un distonico mosaico attraversato da un fascio di luce, che si frammenta per poi ricongiungersi in un unico flusso sensoriale.

    DJ SET


    La domenica mattina stava lasciando entrare l'alba. Di fianco a me, nel letto, una sensazione di inquietudine. Albeggia presto, la domenica mattina. Sono gli anni sprecati che incalzano. E' domenica mattina e mi sento cadere, ho una sensazione che non vorrei aver mai conosciuto.

    Eccola che arriva, attento a come ti muovi, dicevo a me stesso, lei ti spezzerà il cuore in due. Non è difficile accorgersene, basta guardare il colore falso dei suoi occhi. Ti esalterà solo per umiliarti, che pagliaccio.
    Ha scritto di te nel suo diario, sei il numero 37. Viene dalla strada, ti ha già vinto prima ancora di giocare, ti tratterà come un fantoccio.


    I suoi lucidi stivali di pelle, lo schioccare della sua frusta e la sua aria da donna-bambina. Ecco che arriva il tuo servo, non lo abbandonare. Colpisci, padrona e cura il suo cuore.
    Peccati vellutati di piaceri da lampione, pellicce d'ermellino l'adornano, lei imperiosa è lì che ti aspetta.
    Sono stanco, così stanco che potrei dormire mille anni. Mille sogni potrebbero svegliarmi, tanti colori diversi creati impastando tra loro le mie lacrime.


    Qualcosa in un certo senso oggi mi ha colpito: Ti ho guardata e mi sono chiesto se vedessi le cose come le vedo io. La gente ci giudicherà colpevoli, questo mi ha colpito oggi.
    Ti guardo, stai ballando dove i cani imputridiscono e defechi estasi davanti a me. Ma adesso siamo creature che arrancano nell'oggi, imprigionate nella doppiezza del domani. Il paradiso è sul cuscino, il suo silenzio fa a gara con l'inferno. E' un servizio attivo 24 ore su 24, garantito per farti parlare.


    Accarezzati, piccola maliziosa, perchè le mie mani sono tutt'altro che inaridite.
    Anche se niente ci terrà uniti, potremmo rubare un po' di tempo, per un solo giorno. Vorrei poter nuotare, insieme a te, come delfini. Solo per un giorno, anche solo per un giorno.
    Hai messo sottosopra il mio mondo. Tu, cosa preziosa. Mi lasci affamato e quasi esausto. Piccola meraviglia, sei una piccola meraviglia.
    Guardami essere te, piccola meraviglia.


    Non credo nell'esistenza degli angeli, ma guardandoti spero che esistano. Li chiamerei tutti a raccolta, per dirgli di proteggerti dall'altro, per fare in modo che ognuno accenda una candela per te, per rendere la tua strada più visibile, luminosa e facile da percorrere. La strada che ti porterà tra le mie braccia.
    Questo è un giorno perfetto, tu mi hai fatto dimenticare di me stesso.


    Alla deriva in mari deserti facevo del mio meglio per sorridere, fino a che le tue dita ed i tuoi occhi ridenti non mi hanno attirato verso la tua isola. E tu cantavi:

    "Fai vela verso di me, lascia che ti stringa tra le mie braccia. Io sono qui, sto aspettando per averti."


    E' stato un sogno o tu sognavi me? Ora la mia stupida barca sta accostando. Innamorati infelici si sono infranti sui tuoi scogli. Perchè adesso canti: " Non toccarmi, torna domani"?
    Il mio cuore rifugge dal dolore.

    Sono confuso come un bambino appena nato, sono turbato di fronte alla marea. Rimarrò tra quelli che si sono infranti? Mi stenderò con la morte mia sposa?
    Cosa devo fare per farmi amare da te? Cosa devo fare perchè te ne importi qualcosa? Cosa devo fare per essere ascoltato? E' triste, sta diventando tutto sempre più assurdo.
    Prima non riuscivo a guardarti negli occhi, avrei voluto essere speciale. Tu lo sei maledettamente. Ma sono una persona strana, cosa sto facendo qui? Io non appartengo a questo posto. Non importa se ferisce, voglio che tu ti accorga della mia assenza. Qualunque cosa ti renda felice...tutto ciò che vuoi...


    Sarò il tuo specchio, rifletterò quello che sei, nel caso non lo sapessi. Sarò il vento, la pioggia, il tramonto.
    Quando credi che la notte abbia invaso la tua mente, quando dentro sei confusa, lascia che ti mostri che sei cieca.


    Dal primo giorno che ti ho vista, sapevo che eri l'unica. Quando mi hai fissato negli occhi le tue labbra erano del colore delle rose, quelle che crescono giù al fiume, selvagge e rosse come il sangue.
    Alla fine ti ho portata al fiume, dove quelle rose selvagge crescevano. Eri sdraiata sulla riva, il vento leggero ti accarezzava. Mentre ti davo il bacio di addio, queste parole: "E' il momento che tutta la bellezza muoia". Mi sono chinato, mettendoti una rosa tra i denti.
    Tu non hai capito cosa stessi dicendo, l'ultima cosa che hai visto è stata una roccia nella mia mano destra, prima che la facessi violentemente scendere verso di te.


    Sono stanco, così stanco che potrei dormire mille anni. Mille sogni potrebbero svegliarmi, tanti colori diversi creati impastando tra loro le mie lacrime.

    TRACKLIST (ordine semi-casuale):

    Spoiler:
    Sunday Morning - Velvet Underground
    Femme Fatale - Velvet Underground
    Venus in Furs - Velvet Underground
    I'll Be Your Mirror - Velvet Underground

    Dead Man - David Bowie
    Heroes- David Bowie
    Within You - David Bowie
    Little Wonder - David Bowie

    Into My Arms - Nick Cave
    Where the Wild Roses Grow - Nick Cave

    Perfect Day - Lou Reed

    Sorry Seems to be the Hardest Word - Elton John

    Song to the siren - Tim Buckley

    Creep - Radiohead
    Ultima modifica di Cr0n0_; 23-05-2008 alle 19:05:11

  6. #6
    Utente Didier L'avatar di WolfandKing
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    Citazione Cr0n0_ Visualizza Messaggio
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    Bellissimo, davvero bellissimo. Complimenti.
    Occhio per occhio, ed il mondo diventa cieco.

  7. #7
    Utente L'avatar di Chronos II
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    Ho scritto pochi racconti nella mia breve vita, e non ho molta esperienza, ma spero che possiate aprezzarlo. Questo breve racconto tratta un tema a me molto caro, la malattia mentale.

    Ah, chi fosse appassionato come me riconoscerà facilmente un paio di citazioni del meraviglioso album The Wall.

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    Che cosa ci faccio qui?
    Me lo sto chiedendo da molto tempo, mentre mi ergo maestosamente, quasi come un semi-dio, dalla cima di questa montagna possente. Ma in realtà sono solo un debole, uno spezzato. E la montagna non è poi così alta. Sono andato avanti carponi, controvento, mentre il dolore cresceva sempre di più dentro di me. Ma alla fine sono stato sconfitto, umiliato ed esiliato. Sono impotente, sofferente, senza speranze. La disperazione mi avvolge in una stretta inesorabile, e nonostante i miei sforzi il Muro cresce sempre di più.

    Ad essere sinceri questa non è una montagna, ma una collinetta insulsa. Perlomeno non ci sono quelle odiose creature che mi rattristano e spaventano. Per quanto ricordi, mi hanno sempre perseguitato, dall’alba dei tempi. E tutto quello che hanno sempre fatto è stato giudicarmi. Sono dappertutto. Quella che si prende cura di me, l’uomo con gli occhiali, che mi ha rinchiuso in una prigione di pietre insanguinate e parole terribili. Sotto la volta celeste, brulicano nelle città come vermi nella loro tana, e non si fermano mai! Non disdegnano però di guardarmi. E ogni volta nei loro occhi stanchi vedo una cosa che forse neanche loro sanno di fare: mi giudicano. E fa male. Maledettamente male.

    La notte è in casa mia. Mi spia, lo so, l’ho sempre saputo. Un mostro orribile. Posso quasi sentire i suoi mugugni, carichi di odio e vendetta. Vorrebbe terrorizzarmi, colpirmi, dilaniarmi, sbranarmi, godere bevendo il mio sangue, spezzarmi tutte le ossa e amputarmi le braccia. Le mie grida di dolore per lui sarebbero un macabro piacere. Specchio, così lo chiamano. Tremo soltanto al suo pensiero. E la notte quando la paura mi sovrasta, scendo dal mio letto, il terrore che invade il mio corpo, e lì lo vedo come sempre dietro la sua finestra, che mi rivolge uno sguardo truce, seguendo ogni mio movimento. I suoi occhi incavati sono carichi di odio ma lui… perlomeno lui non giudica. E così resto in sua compagnia, e nessuno di noi osa parlare. Mentre le tutti loro dormono nelle loro tane buie, la notte passa lentamente, e il terrore rimane.

    Ora che le parole scorrono fluide dalla mia anima, immagino che loro le troveranno, e le giudicheranno come sempre. Credono di essere onnipotenti. Pensano di poter entrare nella mia testa. Taluni si avvicinano a me e sorridono, mi prendono la mano o mi parlano con voce sommmessa. Non li ho mai capiti, non so cosa vogliano da me. Mi spaventano, e io cerco di fuggire. Ma da lontano sono capace di osservarli. Le loro vite sono monotone, le giornate tutte uguali. Sono ingannatori, tristi, e ogni giorno più stanchi.

    Io non ce la facevo più. Le dannate creature mi si appicicavano sempre attorno, come sanguisughe che si attaccano alla loro preda. La notte le pareti si stringevano attorno a me, soffocandomi, e un urlo silenzioso mi avvolgeva in un gelido abbraccio. E lì vicino Specchio aspettava pazientemente un attimo di debolezza per saltarmi addosso e farmi affogare nel mio sangue. E’ per questo che non posso mai dormire.

    Una mattina il sole non sorse. Quel giorno io completai il muro che mi avvolgeva, soffocandomi, lasciandomi senz’aria, una roccia sul mio cuore che non mi lasciava un attimo di tregua. E mentre cadevo nelle grinfie della disperazione, vidi le livide labbra di Specchio contorcersi in un ghigno spaventoso. Dovevo fuggire, lasciarmi tutto dietro. Il panico si fece strada nella mia mente e io corsi veloce come il vento.

    La città era buia e cupa. Alcune delle creature avevano già cominciato a uscire dalle loro tane e ad infestarla. Non osai fermarmi. Potevo sentire la gelida risata di Specchio dietro di me che echeggiava per tutta la città, saliva fino a sfiorare il cielo scuro e poi discendere nuovamente per ritornare da me, ma attraversando la triste città si tramutava in mille grida disperate che urlavano la loro agonia.

    Le gambe mi scoppiano di dolore, i miei piedi sono un ammasso di carne deforme e sanguinolenta, ma sono salvo per ora, qui, in cima alla montagna che montagna non è. Sotto di me si stende la grigia città, e lì da qualche parte Specchio mi sta cercando con truce determinazione. Presto mi troverà.
    Che cosa ci faccio qui, dunque? Forse pensavo di trovare quella cosa che da sempre cerco disperatamente, ma non è qui che essa si cela. Forse ho sempre saputo dove si trovava, ma non ho avuto il coraggio di accettarlo. Ma ora so esattamente cosa fare.

    Credo che le Creature l’abbiano sempre saputo che sarebbe finita così. Poco importa, ormai. Ora non mi resta altro che camminare lentamente verso il baratro che si stende sotto di me. Mi giro un attimo verso la città del dolore, che non mi ha mai dato tregua nella mia breve esistenza. Alzo la testa verso il cielo solcato da grigie nuvole. Addio, cielo azzurro.

    Senza esitare il mio corpo si tende in un movimento armonioso, le gambe doloranti fanno un ultimo sforzo, il cuore mi balza in gola, ma a me non importa. Sento il vento avvolgermi, e l’aria fredda mordermi il volto. Ora finalmente sto volando, librandomi in aria come un uccello, e il dolore scompare lasciando una calda sensazione di sollievo. Per la prima volta nella mia vita sono felice. Questi pochi, preziosi secondi di pace sono valsi tutta la mia orribile esistenza.

    E non c’è traccia di rimpianto in me quando il mio corpo disobbedisce ai miei desideri e si piega al volere della natura. Non ho più paura mentre cado inesorabilmente verso l’abisso. E ora che ho toccato la fredda terra, il mio corpo spezzato per sempre, la mia vita ormai agli sgoccioli, finalmente sorrido, mentre il grido di rabbia di Specchio echeggia come il tuono morente che pone fine ad una poderosa tempesta.
    Ultima modifica di Chronos II; 24-05-2008 alle 20:58:01

  8. #8
    Villano L'avatar di Jurambalco
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    Il Pozzo della Luna
    Com’è diverso il mio riflesso..


    La sera calava sulla tranquilla cittadina di Macetown, le famigliole si riunivano attorno al desco per godere di riposo ed affetto familiare.
    Anche al numero 7 della Apple st. si riuniva la famigliola dei Doonian. La loro casa si distingueva dalle altre, oltre che per una vistosa bandiera americana posta sulla facciata della casa, grazie ad una florida betulla piantata nel giardino.
    La famigliola contava di cinque membri.
    Marcus Doonian, capofamiglia di 57 anni. Alto, robusto. Aspetto fiero e un viso che invitava al rispetto. I capelli quasi bianchi lasciavano intravedere ancora un po’ dell’antico biondo, così come pure la barba, che Marcus portava con cura.
    Danielle Laussen, di 49 anni circa, era la graziosa moglie di Marcus. Non eccessivamente alta ma parecchio aggraziata, dai capelli corvini e dalle movenze leggiadre. Casalinga perfetta ed amorevole nei confronti sia del marito che dei tre figli.
    William, il maggiore dei tre , aveva adesso ventinove anni, aveva ereditato dal padre la fierezza e la possanza e dalla madre i colori e la profondità dello sguardo.
    Stan, che veniva giusto di compiere il suo ventunesimo compleanno il quel mese di giugno, era meno robusto di suo fratello ed aveva gli stessi colori, ma era più calmo e posato.
    Infine Diana, di appena dodici anni, piccola candida stella della famiglia, l’unica ad aver ereditato la folgore bionda del padre e ad averla mescolata con la leggiadria della madre.
    Dunque cenavano, cenavano e chiacchieravano. La televisione accesa trasmetteva un lento brusio di sottofondo, come i grilli in campagna di una volta. Un uomo, messo su di un palco, cantava in un microfono accompagnato da una musica calma e psichedelica.

    In basso guardi
    E l’acqua osservi
    Al resto son sordi
    Gli occhi tuoi ben fermi
    Solo all’acqua tu rivolgi
    Dell’attenzione i curiosi germi
    E le onde si muovo come mogi
    Cavallini d’erba bassa
    E rimandan il riflesso come d’oggi
    Mancando quel ch’è della massa
    Risplendon fulgidi i colori
    Ma strana è a forma della cassa
    Ch’è così diverso il mio riflesso?

    Marcus era impiegato, come moltissimi altri di Macetown, nella centrale energetica del paese, suo punto cardine. Era una centrale innovativa, l’unica del suo genere, si diceva, sulla terra. Una tecnologia sperimentale che tuttavia dava già i suoi grandi e succosi frutti. La centrale sfruttava le energie di piccoli buchi neri artificiali.
    Marcus non esprimeva, né forse tantomeno aveva, opinione sulla centrale. Si limitava a lavorarci e basta, a prendere lo stipendio e a rendere felice la famiglia. Il figlio Will invece lavorava come cameraman alla tv locale e di opinioni ne aveva eccome. Era fortemente contrario alla centrale, non tanto per il suo ruolo energetico ma perché sosteneva, e con lui sostenevano altre persone dello stato e del paese, giovani perlopiù, che dietro alla produzione energetica altri fossero in realtà gli obiettivi. Ed assieme ad altri giovani del posto avevano fondato una piccola associazione per il controllo della centrale. Scarse erano le azioni di controllo tuttavia, si esponevano al minimo per non destare alcun sospetto, e segretissimo il gruppo. Ogni tanto qualcuno vi si aggiungeva, convinto dai dubbi, ed erano perlopiù parenti o amici strettissimi di chi già era membro. Era questo il caso di Stan, il fratello di Will, che da poco era venuto a conoscenza del gruppo e con ardore vi era entrato.

    “Io e Stan stasera usciamo, ma’”
    “E dove andate, Will?”
    “Al Moon’s Well, stiamo un po’ con gli amici”
    “D’accordo, ma non fate tardi”

    Il Moon’sWell era un grazioso locale di Macetown, luogo di raduno dei pochi giovani della cittadina, attratti dagli alcolici che vi si servivano e dall’arredamento ipnotico del locale. Will e Stan si recarono in effetti proprio li, e come detto incontrarono i loro amici. Essi erano il furbo e riccioluto George Happington, di trentun anni, gestore d’un negozio d’informatica, la snella e fluente Hillary Abeshale, ventisettenne parrucchiera, assieme alla sorella Rose, ventitreenne commessa di supermercato. Assieme a loro erano anche il ventottenne Harry O’Shea, più simile ad un tagliaboschi canadese che ad un giovane cittadino, il trentenne Neil Parren, robusto anche lui, e l’esile Jonny Versace, tutti e tre impiegati come operai nella centrale energetica.
    Ora il punto è che tutti e otto questi giovani facevano parte del gruppo di controllo e non a caso si erano riuniti assieme quella sera. Dopo lunghi tempi il gruppo era riuscito a mettere assieme una mappa approssimativa dell’interno della centrale, tramite testimonianze indirette e piccole incursioni esplorative (non era un luogo eccessivamente controllato ed i ragazzi sapevano come passare non visti). E si era deciso di effettuare un’ incursione nella centrale per carpire i segreti reconditi del luogo, documentarli e poter agire nel caso vi fosse qualcosa di pericoloso. Si erano scelti quegli otto per dei motivi pratici: le sorelle Abeshale erano le più capaci del gruppo nel muoversi leggiadramente e di nascosto, O’Shea, Parren e Versace per la maggiore conoscenza dei luoghi, Happington nel caso avessero dovuto forzare qualche sistema e Will Doonian perché era l’unico capace di maneggiare decentemente la cinepresa che avrebbero usato per documentarsi. Stan era nel gruppo perché aveva parecchio insistito ed in effetti non era affatto d’intralcio. Si sentivano molto sicuri di se.

    Qualche tempo dopo si intrufolavano come scure ombre nei patii della centrale, lì dove la sorveglianza era maggiore. Ma sapevano come entrare non visti, evitando occhi umani che le telecamere. Entrarono infine all’interno del complesso. Quivi si diressero subito in una direzione ben precisa, volevano raggiungere la sala dove si teneva uno dei piccoli buchi artificiali e riprenderne le parti, cosa mai consentita ad uomo libero, poiché oltre alle strutture per controllare il buco che a quelle per trarne energia pareva ve ne fossero alcune di misterioso funzionamento, e su esse volevano principalmente indagare. Prima che poterono si inerpicarono su in una presa d’aria, come nella migliore delle tradizioni, e per un po’ seguirono il deflusso dell’aria fresca. Poi voltarono e percorsi parecchi metri e sbucarono in un corridoio poco illuminato.
    “A venti metri in quella direzione ci dovrebbe essere la porta del laboratorio che cerchiamo” Disse Harry O’Shea.
    E andarono, ansiosi quasi come dei bambini ed altrettanto imprudenti, e trovarono la porta. George riuscì ad aprirla senza alcun problema e non videro o sentirono scattare nessun allarme, le telecamere erano girate da un’altra parte. Ed entrarono nella sala. Di fronte a loro una grande vetrata e dietro di essa il piccolo buco nero. Ma era una denominazione relativa, che infatti il buco aveva la forma di una sfera, che non era affatto piccolo ma aveva un diametro di almeno nove metri e soprattutto non era nero, ma sulla sua superficie sbarluginavano infiniti colori. Tuttavia non era affatto luminoso, che le luci maggiori provenivano da alcune lampade nella sala del buco e da altre dove si trovavano ora gli otto ragazzi. Will Doonian subito si avvicinò alla vetrata e cominciò a riprendere, gli altri si guardarono attorno, cercando di capire qualcosa sul funzionamento degli innumerevoli macchinari che erano nella sala. Ma parvero loro solo strumentazioni di controllo.
    Allora George Happington disse “Sarebbe il caso che entrassimo e andassimo più vicini al buco”
    La cosa creò un po’ di discordia nel gruppo, ma Will era d’accordo ed assieme a george aprì la porta che dava sull’altra stanza e la oltrepassò. Qui si ritrovò davanti all’enorme sfera arcobalenica e ne fu estasiato. Essa era praticamente estranea all’ambiente, non emanava né caldo né freddo e si manteneva sospesa, i macchinari sembravano appena controllarne lo sviluppo ed assorbire le parti in eccedenza. Era spaventosamente calma.
    Fu in quel frangente che Hillary, che era rimasta a far da palo, entrò nel laboratorio ed avvisò che aveva sentito qualcun dirigersi nella loro direzione: dovevano tornare indietro, di nuovo su per le condotte dell’aria. E fu sempre in quel momento che William Doonian cadde, forse sportasi troppo in avanti dalla balaustra per riprendere i particolari della sala, forse perché spinto un po’ da George che tornava indietro.. fatto sta che cadde, e cadde proprio dentro alla sfera.

    Non fu un’esperienza terribile come paventava Will quando si rese conto di aver perso l’equilibrio. Era come stare in qualcosa di piuttosto strano, denso e sfuggente allo stesso tempo, ma non era una sensazione tanto brutta. Dai colori dell’esterno mano a mano passò ad un’oscurità, illuminata da qualche cosa di simile a stelle.. anzi no, meglio dire lucciole. Will si rese conto che pur stando da parecchio in quel luogo (ci avrà passato un paio di minuti) non vi era sospeso, ma seguiva una precisa traiettoria, come se stesse continuando a cadere.. come se stesse cadendo in un posso lunare.
    Ed alla fine uscì, sbucò fuori dalla sfera come vi era entrato, solo che se vi era caduto dentro dall’alto, ora si ritrovava sotto di essa, steso per terra pancia all’aria. E guardava la sfera, poi si guardò anche attorno. Era sempre nella sala della sfera. Si alzò ed uscì da sotto la sfera, vide una scaletta che portava su alla balaustra e prese a salirla rapidamente. Gli sembrò che la balaustra stesse molto più in basso di quanto ricordasse, ma non se ne crucciò molto. Ciò che gli premeva maggiormente era di ricongiungersi al suo gruppo. Non c’era nessuno infatti nella sala, possibile che se ne fossero andati senza aspettarlo? Senza chiedersi che fine avesse fatto? Forse l’avevano dato per spacciato vedendolo cadere nella sfera..
    All’improvviso smise di camminare, si fermò. Era nella sala del laboratorio, la prima, e sentiva dei passi provenire dal corridoio. Probabilmente la guardia di cui aveva avvisato Hillary.
    Non poteva sperare di passare inosservato nel corridoio, poteva solo sperare che passasse oltre la sala dove si trovava o avrebbe avuto poche speranze. Preferì in ogni caso tornare sulla balaustra di fronte alla sfera, li aveva maggiori possibilità di nascondersi.
    Ecco che sentì la guardia arrivare davanti alla porta del laboratorio ed aprirla e Will si rese conto del suo errore: aveva lasciato la porta della sala della sfera, dove si trovava lui, aperta. La guardia si sarebbe certo insospettita e diretta a controllare. Ma forse, pensò Will, questa cosa poteva portarsi a suo vantaggio. Si trovava infatti immediatamente dietro la porta e non appena vide la sagoma di un fucile allungarsi oltre essa con terribile forza la spinse e sentì dietro di essa il soldato cadere a terra, travolto dalla sorpresa e dalla robustezza della porta. Allora Will uscì dal suo nascondiglio e poco ci mancò che cadesse un’altra volta giù dalla balaustra, aveva infatti fatto un grande salto, misto di stupore e di terrore, quando vide chi aveva colpito.
    Un soldato, si, ma non umano. Possedeva due gambe e due braccia, ma esse erano spaventosamente esili e lunghe, ed il corpo era parecchio piccolo, ma la testa era ciò che di più terribile vi fosse: un misto tra la testa d’una lucertola e quella di un ibis, stretta e oblunga, coperta di una specie di squame che pure si dilungavano sul resto del corpo.
    Era dunque questo ciò che facevano all’interno della centrale?
    Doveva assolutamente non farsi prendere dal panico e documentare la cosa, poi fuggire. Estrasse la telecamera e la accese, ma essa non sembrò rispondere. Provò e riprovò più volte, ma nulla. Will pensò che doveva essere andata a puttane quando aveva attraversato con lui la sfera. Grande fu il rimorso, e allora pensò solo a fuggire, ma notò il fucile della guardia. Anch’esso era piuttosto strano, non ne aveva mai visto di simili, era quasi un’asta affusolata e aveva un appiglio in fondo, quasi fosse un fioretto, provò a stringerlo in mano ed ebbe un po’ di difficoltà, al che si avvide che le mani della creatura avevano soltanto tre dita. Pensò che pure quella strana arma poteva essere considerata una prova. E tornò sui suoi passi.
    Così preso com’era dalla fuga non si avvide che i corridoi erano un po’ diversi da quelli prima percorsi col gruppo, eppure correvano nella stessa direzione e non se ne curò. Pure il bocchetto dell’aerazione trovò nello stesso posto, anche se gli parve che la grata fosse un po’ diversa. Ma riuscì ad uscire all’esterno, e corse verso casa. Neppure allora si avvide che l’erba non era la stessa che era solito calpestare nel suo giardino ma era più una sorta di muschio, né notò che l’architettura delle case della cittadina era leggermente diversa né che le scritte sui cartelli erano in un linguaggio a lui incomprensibile. Ma quando giunse dove doveva essere casa sua si accorse che non v’era nessuna betulla in giardino e che non v’era alcuna bandiera americana sulla facciata. E si avvide anche del muschio che calpestava al posto dell’erba e che l’architettura della casa stessa era un po’ diversa. Allora si fece cauto ed invece di entrare in casa si appropinquò ad una finestra e vi sbirciò dentro. E vide una camera da letto, e nel letto stavano immobili due persone. Stette un po’ a guardare e si accorse con orrore che quelle due non erano persone ma creature come quella che aveva stroncato nella centrale. Poi sentì un rumore venire da un’altra finestra e vi si avvicinò. E vide una sorta di salone dove una sorta di tv era stata accesa ed una sorta di bambina, anch’essa creatura esile col becco, ne abbassava rapidamente il volume per non essere scoperta.
    E allora Will fu preso dalla confusione e dallo sconforto. Cos’era accaduto? Il luogo era simile alla sua Macetown, eppure diverso… un riflesso distorto…
    E stette così per parecchio tempo, nel buio illuminato fiocamente dalla luna, a contorcersi dal dolore di essere lui una cosa misteriosa dove si trovava adesso. E giunse alla conclusione che era stato il buco nero a mandarlo li, quando lo aveva attraversato, in un mondo terribilmente simile nella sua diversità. E volle tentare di tornare al suo, e tornò di nuovo sui suoi passi. Ma era sconvolto e aveva abbandonato ogni cautela, così che venne sorpreso, un fascio di luce puntato su di lui e voci stranissime si udivano attorno a lui, chi pareva ordinasse qualcosa chi sussurrava spaventato. E subito si abituò alla luce e si vide circondato. E disperato lanciò un grido d’animale, diede piglio al fucile che ancora teneva stretto ed eruttò lapilli e lava.
    E quella notte stessa la bambina-uccello si soffermò stupita e spaventata sull’edizione straordinaria del notiziario del luogo che annunciava l’abbattimento di una stranissima creatura nel perimetro della centrale e dell’avvio di un dibattito sulle reali ricerche della centrale.
    Ultima modifica di Jurambalco; 25-05-2008 alle 15:12:57

  9. #9
    Utente Didier L'avatar di WolfandKing
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    Ho scritto pochi racconti nella mia breve vita, e non ho molta esperienza, ma spero che possiate aprezzarlo. Questo breve racconto tratta un tema a me molto caro, la malattia mentale.

    Ah, chi fosse appassionato come me riconoscerà facilmente un paio di citazioni del meraviglioso album The Wall.

    ------------------------------------------------------------------------------------------

    Che cosa ci faccio qui?
    Me lo sto chiedendo da molto tempo, mentre mi ergo maestosamente, quasi come un semi-dio, dalla cima di questa montagna possente. Ma in realtà sono solo un debole, uno spezzato. E la montagna non è poi così alta. Sono andato avanti carponi, controvento, mentre il dolore cresceva sempre di più dentro di me. Ma alla fine sono stato sconfitto, umiliato ed esiliato. Sono impotente, sofferente, senza speranze. La disperazione mi avvolge in una stretta inesorabile, e nonostante i miei sforzi il Muro cresce sempre di più.

    Ad essere sinceri questa non è una montagna, ma una collinetta insulsa. Perlomeno non ci sono quelle odiose creature che mi rattristano e spaventano. Per quanto ricordi, mi hanno sempre perseguitato, dall’alba dei tempi. E tutto quello che hanno sempre fatto è stato giudicarmi. Sono dappertutto. Quella che si prende cura di me, l’uomo con gli occhiali, che mi ha rinchiuso in una prigione di pietre insanguinate e parole terribili. Sotto la volta celeste, brulicano nelle città come vermi nella loro tana, e non si fermano mai! Non disdegnano però di guardarmi. E ogni volta nei loro occhi stanchi vedo una cosa che forse neanche loro sanno di fare: mi giudicano. E fa male. Maledettamente male.

    La notte è in casa mia. Mi spia, lo so, l’ho sempre saputo. Un mostro orribile. Posso quasi sentire i suoi mugugni, carichi di odio e vendetta. Vorrebbe terrorizzarmi, colpirmi, dilaniarmi, sbranarmi, godere bevendo il mio sangue, spezzarmi tutte le ossa e amputarmi le braccia, e le mie grida di dolore per lui sarebbero un macabro piacere. Specchio, così lo chiamano. Tremo soltanto nel pensarlo. E la notte, quando la paura mi sovrasta, scendo dal mio letto, il terrore che invade il mio corpo, e lì lo vedo, come sempre dietro la sua finestra, che mi rivolge uno sguardo truce, seguendo ogni mio movimento. I suoi occhi incavati sono carichi di odio, ma lui… perlomeno lui non giudica. E così resto in sua compagnia, e nessuno di noi osa parlare. Mentre le tutti loro dormono nelle loro tane buie, la notte passa lentamente, e il terrore rimane.

    Ora che le parole scorrono fluide dalla mia anima, immagino che loro le troveranno, e le giudicheranno come sempre. Credono di essere onnipotenti. Pensano di poter entrare nella mia testa. Taluni si avvicinano a me e sorridono, o mi prendono la mano, o mi parlano con voce sommmessa. Non li ho mai capiti, non so cosa vogliano da me. Mi spaventano, e io cerco di fuggire. Ma da lontano sono capace di osservarli. Le loro vite sono monotone, le giornate tutte uguali. Sono ingannatori, tristi, e ogni giorno più stanchi.

    Io non ce la facevo più. Le dannate creature mi si appicicavano sempre attorno, come sanguisughe che si attaccano alla loro preda. La notte le pareti si stringevano attorno a me, soffocandomi, e un urlo silenzioso mi avvolgeva in un gelido abbraccio. E lì vicino Specchio aspettava pazientemente un attimo di debolezza per saltarmi addosso e farmi affogare nel mio sangue. E’ per questo che non posso mai dormire.

    Una mattina il sole non sorse. Quel giorno io completai il muro che mi avvolgeva, soffocandomi, lasciandomi senz’aria, una roccia sul mio cuore che non mi lasciava un attimo di tregua. E mentre cadevo nelle grinfie della disperazione, vidi le livide labbra di Specchio contorcersi in un ghigno spaventoso. Dovevo fuggire, lasciarmi tutto dietro. Il panico si fece strada nella mia mente, e io corsi veloce come il vento.

    La città era buia e cupa. Alcune delle creature avevano già cominciato a uscire dalle loro tane e ad infestarla. Non osai fermarmi. Potevo sentire la gelida risata di Specchio dietro di me, che echeggiava per tutta la città, saliva fino a sfiorare il cielo scuro, per poi discendere nuovamente, per ritornare da me, ma attraversando la triste città si tramutava in mille grida disperate che urlavano la loro agonia.

    Le gambe mi scoppiano di dolore, i miei piedi sono un ammasso di carne deforme e sanguinolenta, ma sono salvo per ora, qui, in cima alla montagna che montagna non è. Sotto di me si stende la grigia città, e lì da qualche parte Specchio mi sta cercando con truce determinazione. Presto mi troverà.
    Che cosa ci faccio qui, dunque? Forse pensavo di trovare quella cosa che da sempre cerco disperatamente, ma non è qui che essa si cela. Forse ho sempre saputo dove si trovava, ma non ho avuto il coraggio di accettarlo. Ma ora so esattamente cosa fare.

    Credo che le Creature l’abbiano sempre saputo che sarebbe finita così. Poco importa, ormai. Ora non mi resta altro che camminare lentamente verso il baratro che si stende sotto di me. Mi giro un attimo verso la città del dolore, che non mi ha mai dato tregua nella mia breve esistenza. Alzo la testa, verso il cielo solcato da grigie nuvole. Addio, cielo azzurro.

    Senza esitare il mio corpo si tende in un movimento armonioso, le gambe doloranti fanno un ultimo sforzo, il cuore mi balza in gola, ma a me non importa. Sento il vento avvolgermi, e l’aria fredda mordermi il volto. Ora, finalmente sto volando, librandomi in aria come un uccello, e il dolore scompare lasciando una calda sensazione di sollievo. Per la prima volta nella mia vita sono felice. Questi pochi, preziosi secondi di pace sono valsi tutta la mia orribile esistenza.

    E non c’è traccia di rimpianto in me, quando il mio corpo disobbedisce ai miei desideri e si piega al volere della natura. Non ho più paura mentre cado inesorabilmente verso l’abisso. E ora, che ho toccato la fredda terra, il mio corpo spezzato per sempre, la mia vita ormai agli sgoccioli, finalmente sorrido, mentre il grido di rabbia di Specchio echeggia come il tuono morente che pone fine ad una poderosa tempesta.
    Ho letto anche questo..questo contest sarà il primo dove leggerò ogni singolo racconto, dato lo standard qualitativo...
    Occhio per occhio, ed il mondo diventa cieco.

  10. #10
    Utente L'avatar di Chronos II
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    Citazione WolfandKing Visualizza Messaggio
    Ho letto anche questo..questo contest sarà il primo dove leggerò ogni singolo racconto, dato lo standard qualitativo...
    Pure per me.

    Ma ora basta OT: parliamone qui.

  11. #11
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    EDIT: NON IN GARA



    Di notte la casa è buia. Il rumore della chiave nella toppa, col suo gelido digrignare d'ingranaggi, sembra il sigillo di qualche atto irreparabile. I passi, una volta che si è entrati, sono il rumore lieve e attutito della polvere che si posa.
    Si entra in cucina e si accende la luce, la lampadina attira il volo di fragili farfalle notturne. Si apre lo sportello della cucina, sopra il lavello, piano, perchè gli altri non si sveglino, e si prende un bicchiere dalla scansia, dove molti sono allineati. Si apre la cannella del lavello, l'acqua, scrosciando, s'infrange contro il fondo del bicchiere. Dissetati lo si riempie nuovamente, poi lo si poggia sul tavolo; vicino c'è il corpo di una farfalla: si è avvicinata troppo alla luce, ancora batte le ali.
    Si prende un altro il bicchiere da sopra il lavello e, con cautela, si chiude l'anta del mobile. Dal frigorifero si prende del latte, si riempie il secondo bicchiere, poi lo si poggia accanto al primo in muta fratellanza. Si esce di cucina facendo attenzione a spengere la luce.
    Ci si dirige verso la propria camera, e attraversando il breve corridoio, s'ascolta il rassicurante russare che proviene dalle altre stanze da letto. Prima d'accostare la porta della propria, perchè non ne venga luce, ci si rivolge al fondo del corridoio, dove il buio è più fitto, e si chiama silenziosamente il nome estraneo che non appartiene agli abitanti della casa.
    Si accosta la porta della camera; fuori sboccia un fiore di silenzio.
    La mattina ci si sveglia per primi e ci si alza; in cucina i bicchieri sono ancora pieni: li si vuota nell'acquaio e si da loro una rapida lavata, per riporli al proprio posto prima che qualcun'altro entri. Poi si va in bagno e si ascoltano i rumori del risveglio nelle altre stanze. Davanti allo specchio si studia il volto di quello che si mostra di là dall'altra parte: se sia più pallido, emaciato, ma ci si stanca presto.
    Quando ci si è vestiti e si è pronti per la giornata che sta iniziando, si esce di casa, dopo aver salutato, e ci si getta in strada, lasciando trascolorir se stessi nella generale atonia del mondo.
    Si rincasa a sera e ci si imbatte per strada in una figura rinsecchita, arrancante sotto il peso di due cariche borse della spesa. Le si getta una sola rapida occhiata e si apre la bocca appena, come per dir qualcosa; ci si allontana poi, a passo spedito, senza aver detto niente, come dovendosi nascondere da qualcuno che ci insegua.
    A sera la casa è buia. Dentro, le serrande alle finestre sono state già tirate giù. Sul tavolo di cucina c'è un foglio bianco, dove una scrittura corsiva annuncia il non rientro per cena e dei saluti; qualcuno ha spazzato dal tavolo la farfalla morta, batteva ancora le ali ?
    Si cena. Poi si inganna la serata secondo l'ispirazione del momento, non credendo a nulla di quello che si fa: semplice scusante per non andare a letto. Ci si infila sotto le coperte, spengendo la luce, quando si sentono gli altri rincasare, nonostante l'ora sia tutt'altro che tarda; si avverte, da oltre il muro delle palpebre, la presenza stupita di qualcuno venuto a controllare un sonno così stranamente precoce.
    Si resta nel letto ad occhi chiusi, senza dormire, per una, due, tre ore, finchè tutti gli altri si son messi a letto a loro volta. Allora si sguscia fuori dalle lenzuola, si scivola in cucina, si sistemano nuovamente i due bicchieri d'acqua e latte; si ripete una muta invocazione a qualcuno che non arriverà. Rientrando silenziosamente tra le coltri, si urta col piede la costa del volume, posato per terra aperto, sotto il letto, dei racconti di Guy de Maupassant.
    Ultima modifica di Imago; 25-05-2008 alle 21:10:19

  12. #12
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    Drappi di pece.
    Scaglie di luce macchiate di bile.
    Coaguli di te. Dentro me.


    /La senti? La senti raschiare?/


    Stridii nella sacra quiete.
    Cattedrali spezzate.
    Vetri incrinati. Esplodono.


    /Le senti? Le senti le unghie incarnite raspare la roccia? La sua salma sordida strisciare e gridare?/


    Stasi.


    /Lo senti? Lo senti il fetore? L’odore di guasto, l’olezzo di marcio, l’afrore di morte?
    Ti invade, pervade, si insinua, manipola, non devi, non devi, resisti!/


    Eppure il suo corpo era lì, disteso, braccato, indifeso.
    Ed io la tenevo ancora tra le braccia. Ed i suoi occhi spenti sarebbero stati ancora quelli di un angelo, se solo li avessi guardati. Se solo non avessi fissato lui, per terra, tra i fantasmi rossi di sirene lontane, disteso, placcato, indifeso.
    E se solo il fango non si fosse insinuato tra i boccoli, se solo il suo corpo dipinto di sangue non fosse crollato ai miei piedi. Se la mia mano lentamente…


    /Lo senti? Lo senti il veleno fluire? Lo senti fiottare quel miele? Quel nettare caustico che sgorga dal favo?
    E’ un buio che inonda e poi infiamma e poi acceca. E’ un nero colloso, copioso, vischioso. Trasuda dai muri, ti accerchia, risale le gambe, ti abbraccia, ti culla. Comanda./


    …non fosse scivolata sul fianco; se i miei piedi, arrancando, non avessero scavalcato…


    /Non sono loro! NON SONO LORO! E’ lei! La senti?
    NON LA SENTI?!/


    …il suo esile guscio. Se sul mondo non fosse calato un sipario, se la pioggia non avesse cessato di battere, se le urla non fossero state sommessi brusii, se quei flash non fossero stati antichi bagliori, se gli sguardi non fossero stati semplici brume, se i lampioni non fossero stati pallide lune /Un solo sentiero, cento passi. Cento passi e sarai la sua preda.
    Lo sapeva, lo sapeva!
    L’aveva intuito che questa sarebbe stata una di quelle giornate.
    Un altro di quei tre-precedenti-penali che, mai contenti di quanto possa essere pietosa la loro vita, decidono di rendere una merda anche quella degli altri.
    Perché? Perché? Possibile che provino gusto a marcire in quelle bare per anni e a farsi sfondare da qualche energumeno compagno di cella?
    Trasmettere qualche buon ideale, dare l’esempio. Era questo che lo spinse a scegliere questo lavoro. Non per vedere qualche ragazzetto, neanche diciottenne, accoltellare e stuprare, non per rinchiudere gente in prigione, la stessa prigione che tanto lui odiava.

    “Crrrr… capo, abbiamo un problema. Crrr!”

    Lo sapeva, lo sapeva! Pura utopia la sua visione. Lo sapeva fin dall’inizio.
    Ha un ostaggio. Chiamate i rinforzi, circondate il negozio.
    Ed era zuppo, sotto quel torrente in piena, era zuppo e parlava al megafono, parlava a una parca maldestra, con la lama posata su un filo innocente.
    Fiumi di parole che si spengevano assorbite dalla pioggia, che non sfociavano nel mare.
    “Crrrr… capo, l’ostaggio è… crrr!”
    Aveva sentito? Non aveva sentito? Si, doveva aver sentito male.
    “Crrrr… l’ostaggio è…

    Dal suo megafono non uscì null'altro più che un mugugno spezzato.
    Poi questo si schiantò a terra, non il mugugno, il megafono, o entrambi, e gli occhi sgranati del comandante fissarono in là, molto più in là della porta a vetri e dei palazzi, molto più in là dell’orizzonte e dell’universo intero.
    Ed intanto era passato troppo, troppo tempo per non agire, per non irrompere nell’Uncle Joe Multistore, per non sentir Steve rantolare nella corsia bricolage, per non scavalcare la cassa, per non circondarlo nel magazzino, per non sentire gridare il suo nome, per non incrociare i suoi occhi malati, per non vederlo gettare l’ostaggio e darsi alla fuga, per non vedere la figlia ondeggiare, tra attimi sospesi, e indietreggiare, ed inciampare, e crollare
    su di una roncola appena affilata,
    su di una roncola appena affilata,
    su di una roncola appena affilata.
    Cinque. Tre. Due./ se il mio dito non fosse scivolato, cauto, su quel grilletto, se il mio braccio non si fosse teso in avanti, se la mia bocca non fosse stata una smorfia, se i suo occhi non avessero incrociato i miei occhi. Se solo non lo avessero fatto, non avrebbe sofferto.

    /Arrivederci. Addio./

    Drappi di pece.
    Fontane scarlatte.
    Coaguli di me. Dentro te.

    /Arrivederci. A Dio./

    Io, te.
    L'assassino di me.
    Ultima modifica di avatarz; 26-05-2008 alle 20:39:48

  13. #13
    Blues man L'avatar di Naruto
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    Fiori diversi, uomini uguali

    C’era una volta in una campagna sconfinata, disseminata di migliaia di fiori sempre diversi e ben illuminata dal sole, un’enorme villa costruita in roseo marmo che al mattino, quando il sole sorgeva direttamente dall’orizzonte, sembrava schiarirsi e al contrario al tramonto pareva diventare più scura. Il paesaggio si estendeva a perdita d’occhio e non pareva esserci nessun’altra costruzione, l’unica cosa che si ergeva dal terreno al di sopra delle spighe di grano, anch’esse rigogliose e del colore dell’oro, era un robusto albero di mele cresciuto nelle vicinanze della villa, noncurante delle stagioni e sempre generoso di attraenti frutti rossi e splendenti.
    La villa al pari della campagna in cui si trovava pareva esser a sua volta disabitata, dal momento che pur essendo vastissima ospitava soltanto due abitanti i quali, da soli, godevano di tutta la tranquillità del mondo. Uno dei due, dall’aspetto di giovane e bellissima donna, si trovava nell’enorme cucina costruita sul balcone affacciato sul paesaggio a est della casa. Era così indaffarata a cucinare che non sentì nemmeno l’altro abitante, di giovane e bell’aspetto maschile, rientrare dalla sua solita passeggiata per i campi, non andando quindi ad accoglierlo, evento inizialmente insolito ma che ormai si ripeteva ogni giorno da una settimana. Fu per questo che quello non se ne sorprese come le prime volte, bensì salì la grande scalinata nel mezzo del salone ed entrò nella cucina dal lungo corridoio che collegava tra loro le stanze del secondo piano. Fu solo quando, essendo quello entrato nella stanza, un raggio di sole ormai pomeridiano gli illuminò il candido viso che lei lo vide, limitandosi però a sorridergli. Così per la settima volta, fu lui a parlare per primo: “Che stai preparando ancora?” e lei: “Vedrai, ne sarai deliziato”.
    C’era una fortissima intesa tra i due, più intensa di quella di due innamorati e più solida di quella di due fratelli, tale che di quando in quando davano persino l’impressione di essere un’unica anima divisa in due corpi separati. Eppure capitava anche che non fossero d’accordo. “Ma…hai cucinato abbastanza, stiamo bene anche così” disse lui, allargando le braccia a indicare tutto ciò che gli era intorno. “Fidati, di tutte le mie creazioni questa sarà in assoluto la migliore” replicò lei. “Se ne sei sicura…ma allora devi dirmi cosa stai preparando oppure” frapponendosi mentre parlava tra lei e il calderone nel quale stava mescolando gli ingredienti “ti impedirò di cucinare oltre” sorridendo sicuro di sé.”No dai, così si rovina tutto! D’accordo d’accordo te lo dirò, ma ora spostati ti prego” patteggiò per la sicurezza del proprio piatto.
    Lui, spostatosi, si appoggiò a uno dei mobili e aspettò silenziosamente curioso che lei togliesse il velo dalla sua ultima trovata, ci provava sempre a tenerle segrete prima che fossero complete ma mai una volta che ci riuscisse. Rassegnata quindi incominciò a parlare, all’inizio ancora esitando: “Sto preparando…gli uomini. Esseri pensanti a nostra immagine e somiglianza, completi e perfetti, tutti identici tra loro, cosicchè ognuno sia del tutto autosufficiente nel proprio nascere, crescere, riprodursi e morire”.
    Forte della lieve sorpresa che la notizia aveva avuto su di lui, colse l’occasione per continuare a spiegare prima che l’altro potesse rispondere in qualche modo, forse temendo un’eventuale bocciatura del progetto. “Hai presente gli animali che ho creato? Quelli erano solo delle prove, mi sono esercitata con loro in modo che, quando fosse arrivato il momento, sarei stata capace di creare qualcosa di perfetto. E questo qualcosa è appunto l’uomo” concluse, ora in trepidante attesa di una risposta. Eppure, con grossa sorpresa di lei, non fu dell’invenzione in sé che il compagno volle ulteriori spiegazioni ma solo su uno degli aspetti di questa, come se avesse già approvato l’idea a patto però di cambiarne qualcosa.
    “Hai detto” disse “che saranno tutti assolutamente uguali?”, “Certo” rispose lei “altrimenti non potrebbero essere perfetti. Sono riuscita a creare gli animali soltanto somiglianti tra di loro, per cui ho dovuto compensare tale mancanza privandoli della ragione, dell’intelletto e della coscienza. Insomma, se creassi gli uomini intelligenti ma ognuno diverso dall’altro, come i fiori qui fuori in giardino, in breve tempo andrebbero del tutto fuori controllo. Così invece…” “…sarebbero perfetti per sempre” la interruppe lui e concluse “ma anche molto, molto noiosi”. “Che cosa?” chiese lei sorpresa ma questa sua domanda fu presto liquidata da un affrettato “niente, scusa, non ci pensare” dell’altro. “Ad ogni modo” gli disse lei mettendosi sulla difensiva “ormai è quasi pronto, manca solo un po’ di uguaglianza” e gli volse le spalle per posare sullo scaffale i tre ingredienti che aveva usato poco prima, con scritto sulle etichette rispettivamente “ragione”, “intelletto” e “coscienza”. Quindi si girò di nuovo e gli fece cenno di spostarsi per lasciarle prendere l’ultima spezia dallo scaffale cui quello si stava appoggiando con la testa. Lui sorrise impercettibilmente facendolo, incominciò poi a parlare mentre l’altra era protesa verso l’alto, con le mani e gli occhi impegnati a cercare l’uguaglianza nello scaffale.
    “Ti ricordi” disse “quando sei nata? La nostra nascita, la nostra infanzia, l’adolescenza, tutte le cose passate insieme, qui, da soli…sono tutte fasulle. Anzi, sono vere, ma le ho architettate io. Prima di questo posto, prima di noi, c’ero soltanto io, ‘completo e perfetto’ come hai detto tu prima, uguale a me stesso. E lo sai qual era il problema? Mi annoiavo” e intanto si avvicinava non visto al calderone nel mezzo della stanza “Mi annoiavo perché ero solo. E perfetto persino. Non potevo evolvere né retrocedere da quella situazione. Così ho avuto un’idea: ho creato te, Venere portatrice di luce, come dice il tuo secondo nome, Lucifera”. Mentre egli aveva ormai raggiunto il calderone, Venere non cercava più l’ingrediente che a lungo non aveva trovato, bensì taceva senza ancora voltarsi forse per paura di ciò che poteva vedere. “Ti ho creato” continuò quello “perché esistesse qualcosa di diverso che mi intrattenesse, che mi divertisse”.
    Allora quella trovò finalmente il coraggio di parlare, ma non abbastanza da rivolgere all’altro una domanda veramente significativa: “Non-non c’era nient’altro di-di diverso in tutto l’universo?” chiese con voce tremula. “Oh tesoro” rispose lui lasciandosi sfuggire una risatina “IO sono l’universo” in un tono che per un attimo diventò minaccioso. Ma non aveva affatto terminato di parlare e così continuò: “Ho pensato che tu fossi la soluzione perfetta e tale ti sei dimostrata…fino ad ora” balenò nuovamente quel tono minaccioso, Venere si appoggiò allo scaffale con un braccio, quasi temesse di non riuscire a rimanere in piedi. “Tutte le cose che hai creato, la terra, i fiori, il sole e la luna, gli animali, persino quell’albero di mele che mi piace tanto, sono state tutte grandi invenzioni, ma questa, questo ‘uomo’ di cui parli…beh ti sei davvero superata”. Si prese una piccola pausa nella quale sfilò dalle pieghe della veste che indossava un piccolo contenitore cilindrico di vetro, lo stappò e prese a versarne il contenuto nel calderone. Il rumore che aveva allarmato Venere la fece girare e le impose di chiedere: “Quella è…uguaglianza?” quasi in lacrime. Egli non rispose, le concesse solo uno sguardo, un orgoglioso singolo sguardo per comunicarle che la risposta poteva benissimo immaginarsela da sola. Una volta versato tutto il contenuto gettò il contenitore a terra, questo si ruppe e nel farlo emise un suono terribile, simile a quello della cruda verità che infrange mille confortevoli menzogne.
    “Ovviamente” disse quello dopo essersi strofinato le mani due o tre volte “quella era diversità. Questa è uguaglianza” e trasse dalla veste un altro piccolo contenitore vitreo, che gettò con forza giù dalla balconata. Il contenitore si ruppe prima ancora di cadere a terra e la polvere contenutavi si disperse nell’aria. Nello stesso momento quello soffiò e la lieve brezza scaturitane trascinò la polvere fino a depositarla su tutti i fiori della terra. Fu da allora che ogni fiore riproducendosi genera un altro fiore del tutto identico a sé. “Hai ideato” riprese a parlare “seppur commettendo un piccolo errore, qualcosa che mi intratterrà per secoli e secoli. Se solo penso a tutte le variabili che l’ingrediente che ho appena versato comporterà…l’uomo diverrà incontrollabile, hai ragione, ma soltanto per se stesso e di questo non mi importa, in fondo come l’ho creato potrò anche distruggerlo in ogni momento. Se invece ti avessi lasciato fare mi sarei trovato a essere dio di tanti piccoli me, loro stessi non ne sarebbero stati contenti, come ti ho raccontato che fu prima che ti creassi. Ma fortunatamente sono tornato in tempo dalla mia passeggiata. Vedi…è per questo che non mi servi più” disse tirando le somme del suo lungo discorso.
    Allora Venere impaurita ma, conscia della situazione, ormai rassegnatasi al suo destino, sospirò scomparendo per volere dell’altro, e di lei rimase soltanto un pianeta fra le stelle infinite, chiamato Venere o Lucifero al mattino e Vespero di sera, poiché alla sua nascita sulla terra il sole stava ormai tramontando. Intanto dal calderone scaturì improvvisamente un alto fumo bianco che prese poi la forma di due figure, un uomo e una donna, che da fumo divennero liquidi e da liquidi divennero solidi. Erano due uomini, si guardarono intorno soffermandosi l’uno sull’altro: erano diversi. Il creatore intanto stava già scendendo le scale, non poteva rimanere con loro, era ovvio. Uscito dalla villa per una passeggiata da cui non sarebbe tornato tanto presto, le ultime parole che pronunciò su quella terra furono: “Tu vieni con me”. E con lui se ne andò anche l’albero di mele.
    Ultima modifica di Naruto; 8-06-2008 alle 10:32:02
    Siamo quello che pensiamo. Siamo quello che scriviamo. Siamo quello che suoniamo. -Ignoto-

  14. #14
    Everything Ends L'avatar di Carmine_XX
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    È il primo contest a cui partecipo, vah, ci provo :

    Cenere
    Notte. Fuori la gente dorme, poche macchine girano per le polverose e buie strade, illuminate da nient’altro che alcuni fatiscenti lampioni.
    E, così, si sedette sulla poltrona più bella che aveva, e fissò direttamente fuori dalla finestra. Guardò l’orologio “è quasi ora”.
    12 Novembre. L’anno non ha importanza specificarlo. Una mattina come le altre, lo smog, la puzza di gas del bus appena partito, lo stridio della bicicletta; nulla era diverso, dopotutto.
    Indossò il cappotto, prese il portafogli, l’orologio, si sistema velocemente i capelli, e scese le scale come aveva sempre fatto. Camminava tranquillo lungo la strada, osservando come tutto sembrava così normale e familiare; il lavaggio era forse completato, allora.
    Le foglie gialle e arancioni adornavano le strade, e i neri rami spogli facevano da sfondo al grigiore delle case, mentre il tutto splendeva su un letto d’erba verde e lucente, all’ombra dei sempreverdi.
    Su quell’altalena dopotutto era normale salirci, giocarci, dondolarsi; anche per quella bambina.
    La vide, come si divertiva, giocava, e si dondolava sempre più velocemente. Troppo velocemente.
    L’altalena era ormai vecchia, cigolava ad ogni spinta, e lentamente ogni suo lamento era come un ultimo respiro prima della morte.
    La catena si spezzò, e i cardini esplosero. La bambina ebbe giusto il tempo di urlare, di strillare, di piangere.
    Volò sull’asfalto, e orde di persone subito si voltarono a guardare cosa si fosse fatta.
    Lui era quello più vicino, quello che avrebbe potuto salvarla, se solo lo avesse voluto. Si girò lentamente, guardò per un attimo a terra, la bambina quasi non si muoveva.
    Si girò di nuovo e continuò per la sua strada. Curioso, non aveva davvero provato nulla. Se fosse accaduto prima, ora già sarebbe in corsa verso l’ospedale.
    Un tonfo sordo lo avvisò che tutto era finito, lei era morta, la gomma dei pneumatici è dura.
    Continuò a camminare, il veleno del rancore non lo aveva minimamente attaccato, anzi, tutto gli sembrava così normale. Dopotutto, era probabilmente l’ultimo giorno che la gente moriva. L’ultimo giorno di sofferenze, per tutti, finalmente.
    E così il messaggero aveva ben pensato di cancellargli tutto ciò che di personalità aveva, tutto ciò che di umano ancora possedeva. Ma a parte questo, il mondo era così normale. Solo a lui sembrava diverso, sembrava strano. Sembrava come se nulla ormai importasse, come se ogni azione perdeva di significato.
    Che bello. Che bello pensò; non si sarebbe più dovuto preoccupare di nulla: di mangiare, di dormire, di vivere.
    Come era triste il sole, pallido e grigio, i suoi raggi coperti dalla foschia, quel bellissimo effetto Tyndall che pochi non avrebbero potuto notare.
    Ma la luce v’era, e con la luce, la gente vive.
    “Peccato, che non vi sarà più. Peccato, che presto tutto ciò finirà. Peccato che il cielo perderà, il celeste eterno che da sempre ha avuto”.
    Nel parchetto eccolo lì, avrà avuto dodici, forse tredici anni. Si, sapeva che dopotutto doveva farlo, alla fine non aveva nulla da perdere.
    Apre il cancello, si avvicina. “Mi passi il pallone? Giochiamo a basket?”.
    Il bambino era felice, finalmente qualcuno giocava con lui. Era un bambino come gli altri, era alto un metro e sessanta, forse sessantacinque, non di più.
    Era così contento, vedeva in quell’uomo una persona di cui fidarsi, una persona con cui giocare.
    E lui? Lui vedeva nel bambino un essere che sarebbe comunque morto. La sofferenza, era la differenza. Non sarebbe stato diverso il fine, se fosse morto così, o se fosse morto comunque fra poco tempo, quando l’ora sarebbe arrivata. Voleva fargli del bene forse, bene. Sembrava male, ma era solo bene. Le persone non potevano saperlo, solo lui poteva dirlo, solo lui era diverso, solo lui sapeva.
    Gioca un po’, forse trenta secondi. Dopodiché, capisce che è arrivato il momento.
    Prende il pallone, e lo scaraventa sulla testa di quel bambino. Cade per terra, piange e urla tenendosi la testa con le mani.
    Lui si avvicina, lo guarda negli occhi: erano così innocenti, così pieni di speranza, probabilmente il bambino non aveva fatto nient’altro quel giorno oltre a giocare con il suo bel pallone.
    Lentamente lo implorava: “ti prego – aiutami, ho paura, non ci vedo bene”.
    Non una lacrima lui versò, e cacciata la pistola, la puntò diretta alla fronte del bambino. E sparò.
    Tornò così in fretta a casa, mentre dietro di lui una donna piangeva incessantemente, forse era la madre. Prese il bambino, ormai senza vita, e insieme a lui si buttò da quel ponte che era sopra il lento fiume colmo di foglie d’autunno. Il dolore per lei era troppo forte, non era quello bene, quello era male.
    Lui arriva a casa, chiude la porta, e aspetta. Il tempo passa, scruta la finestra, nulla ancora appare diverso. Solo il sole, che è sceso lasciando la città al buio. Forse non risorgerà mai più, no, mai più i suoi raggi sarebbero arrivati su quella terra. Presto tutto sarebbe finito.
    Notte. Prende la poltrona, e scrutando l’orologio – “c’è ancora tempo per un caffè” – si sedette sorseggiando la bevanda.
    La forte sirena gli fece capire che era questione di secondi oramai.
    Un lampo fortissimo, una luce che anche se chiudi le palpebre ti acceca, come fosse una trivella penetrante che ti passa da parte a parte, come se fosse uno schiacciasassi che non si ferma dinanzi a nulla.
    Durò solo una manciata di secondi, l’aria distrusse ciò che il fuoco non aveva terminato.
    E di lì, rimase solo cenere. Cenere, che volteggiava nel cielo, il cielo era grigio, il cielo era scuro. Il sole, si era addormentato. Per sempre.
    Ultima modifica di Carmine_XX; 9-06-2008 alle 17:17:16
    Vorrei veder più fuoco ch'acqua o terra
    e 'l mondo e 'l cielo in peste e 'n fame e 'n guerra
    L'HO EMULATO --> qui

  15. #15
    lato oscuro della forza L'avatar di the darkness
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    La signora rimase di stucco quando il dottore le mise tra le braccia il suo bambino appena partorito; aveva visto tante foto di neonati, tutti di un colore rosso scuro, invece il suo aveva la pelle rosastra molto più chiara di quello che si aspettasse e sulla testa si intravedevano dei radi capelli bianchi.
    Il dottore la scosse dallo stupore chiedendole se c’erano stati altri episodi di albinismo nella sua famiglia, o in quella di suo marito, ma lei negò. La madre decise di chiamarlo Elio come il nonno, ignorando che elios in greco significa sole.

    I dottori le avevano spiegato tutti i rischi che comportava quella patologia, quanto fosse pericoloso per suo figlio il sole e il rischio dei problemi di vista. Così i genitori avevano imparato a vivere di notte e dormire di giorno; il padre aveva trovato lavoro come guardiano notturno e la madre si era dedicata alla sua creatura. Elio visse dentro casa fino all’età di dieci anni egli cominciò a mostrarsi insofferente, alla fine anche la madre dovette cedere, comprese che era necessario il contatto con altri bambini e dopotutto il professore privato costava troppo. Era riuscita a trovare per fortuna una scuola serale dove avrebbe potuto frequentare coetanei.
    Il bidello accompagnò Elio lungo il freddo corridoio, i suoi compagni avevano iniziato qualche giorno prima le lezioni. Quando entrò nella classe un mormorio stupefatto si innalzò dai venti studenti che popolavano quel piccolo ambiente quadrato e la maestra lo presentò alla classe; Elio salutò la classe e i compagni risposero con un misto di stupore e timore.
    La maestra aveva spiegato più volte di che cosa soffrisse il nuovo alunno, aveva risposto a tutta una serie di domande per cercare di fugare tutti i dubbi su quella malattia; eppure sebbene fosse passato un mese Elio era ancora trattato con timore dalla classe. I bambini lo guardavano come se fosse una specie di fenomeno da baraccone, come al circo quando si mostra un imponente bestia esotica, benché il domatore assicuri che è innocua gli spettatori temono ad avvicinarsi ed hanno paura che a breve salti addosso per divorarli. Lo guardavano con referenza come una potente forza della natura che aveva deciso di rivelarsi a loro, d’altra parte Elio non era mai stato prima a contatto con altri bambini e non era molto socievole.
    A poco a poco per quanto rimaneva una sorta di timore inconscio come per qualsiasi cosa che non si comprenda appieno, i bambini iniziarono ad accettarlo e la sua presenza entrò nella normale routine della scuola. Alla fine anch’egli prese coraggio e provò a inserirsi nella classe, provò a giocare con gli altri bambini a ridere e a scherzare come se fosse anche egli un qualsiasi bambino.
    Elio aveva stretto amicizia sopratutto con il suo compagno di banco, Ruggero, che nei primi tempi aveva guardato con orrore i suoi occhi privi di iride, ma ai quali poi non aveva dato più peso.
    Nella classe c’era anche un bambino di nome Ivan di origine rumena, che era stato fino ad allora al centro dello scherno dei compagni di classe, perché i suoi genitori erano extracomunitari. Elio cercava di stargli lontano per paura che i compagni decidessero di cambiare bersaglio e concentrarsi su di lui. Ivan aveva sempre uno sguardo timoroso, si guardava attorno spaesato ogni volta che sentiva qualche risata per timore che fosse a causa di qualche scherzo ai suoi danni di cui non si fosse accorto. Stava da solo nel banco, era un ragazzo introverso che cercava di parlare il meno possibile, perché non essendo il suo italiano perfetto appena parlava i bambini lo schernivano. La maestra considerava colpa di questo atteggiamento la sua famiglia e cercava di non indagare più di tanto, essendo quella una scuola privata ogni problema dei ragazzi era sempre in parte ritenuta una colpa della maestra. Dopotutto era pure giovane, di poca esperienza e benché non fosse velato non riconosceva che il ragazzo soffrisse di essere il bersaglio dello scherno della classe.
    L’arrivo dell’inverno fu salutato con un vistoso malcontento. La sera si alzava un forte vento da est, che si abbatteva sulle strade della città, investendo e sferzando tutto quello che incontrava; a complicare le cose sulla città scorreva un tappeto di nubi grigiastre che scaricavano, bene che andava, una fastidiosa pioggerella che intirizziva lo stesso.
    L’umore di tutti peggiorò visibilmente, e i bambini come se risentissero del clima tendevano a scontrarsi tra loro come fossero nubi; la maestra anche essa di malumore mal sopportava i litigi e i piagnistei dei perdenti, così che aveva aumentato quasi senza accorgersene il carico di compiti. Per spezzare la monotonia la maestra chiese agli alunni di leggere un testo del libro di lettura e di commentarlo a turno, uno dei testi da commentare era un racconto sui vampiri.
    Il giorno successivo alla lettura del racconto Elio arrivò in ritardo, e il suo ingresso fu salutato da delle risate sommesse, quasi nascoste. Il suo compagno di banco si comportava diversamente dal solito, fingeva di non guardarlo, ma quando Elio copiava quello che c’era scritto sulla lavagna lo guardava persistentemente; appena Elio si accorgeva delle occhiate, Ruggero si concentrava sul quaderno come se avesse paura di essere scoperto. Elio si era accorto anche delle occhiate fugaci dei compagni e dei sussurri che probabilmente lo riguardavano e non capiva il perché di quell’atteggiamento.
    Durante la ricreazione Elio notando gli sguardi disse nervosamente – Che c’è? Perché mi guardate tutto il tempo? –
    Alcuni dei suoi compagni negarono, ma Luigi che era uno dei tormentatori quotidiani di Ivan gli chiese – sei un vampiro? -.
    - No, certo che no – rispose sorpreso Elio.
    - Ma sei costretto a vivere di notte -
    - Anche voi venite alla scuola di sera – rispose risoluto Elio.
    - Il sole ti brucerebbe – aggiunse un altro compagno.
    - Sì, sei tutto bianco come un morto. La maestra ha detto che i vampiri sono non morti - aggiunsero alcuni bambini in coro.
    - Si, lo dice il libro che i vampiri sono bianchi! – disse un ragazzo.
    Tutti i bambini con un misto di eccitazione e terrore guardando la figura sul testo del libro cercavano di trovare le somiglianze. Il disegno rappresentava un vampiro che si avventava su una povera vittima e che ne mordeva il collo. Un ragazzo fece notare che Elio non aveva i canini lunghi e questo sconfessava la teoria, rammaricati i bambini tornarono ai loro posti.

    Il giorno dopo Elio disse a sua madre che si sentiva male ma in realtà era ancora turbato per il giorno prima e non andò a scuola. I compagni in sua assenza cercavano nuove prove; Ivan che aveva letto che Dracula era rumeno si era informato un po’ dal padre e aveva ricercato su internet. Ivan riguardando la figura elaborò una sua teoria, e durante la ricreazione mentre gli altri discutevano si intromise – Ho capito! Il vampiro disegnato è adulto! Elio non ha i denti lunghi perché non è adulto – Gli altri bambini lo guardavano con stupore e poi esplosero in un coro di approvazione, da quel momento Ivan divenne l’esperto di vampiri.
    Nei giorni seguenti Elio era inquieto, sentiva addosso come una pesante coperta, gli sguardi degli altri, trasaliva a ogni rumore, anche se un compagno gli si avvicinava. I ragazzi confabulavano tra di loro, ognuno proponeva una teoria diversa e aggiungeva dettagli. C’era un altro problema da risolvere; il vampiro raffigurato nel disegno aveva i capelli neri, quelli di Elio erano di colore perlaceo, ogni volta che potevano ne discutevano animatamente evitando che l’interessato sentisse qualcuno.
    Tutti avevano iniziato a temere di nuovo Elio, tutti avevano capito che il vampiro era una creatura demoniaca, una figura losca da evitare. Ogni volta che si avvicinava a un gruppetto che parlava o scherzava, i bambini lo guardavano e si allontanavano, tutti avevano paura a prestargli anche solo la matita. Solo Ruggero non aveva paura di lui, anzi lo guardava con ammirazione; stava anche ore a guardarlo finché la maestra non lo rimproverava perché era disattento.
    L’animo di Elio si incupì, ogni tanto piangeva senza cercare di farsi notare dalla maestra, se essa lo interpellava simulava un mal di pancia. Vicino a lui i compagni mettevano nascosto sempre un bulbo d’aglio, un giorno ne trovò alcuni perfino nello zaino. I compagni gli disegnavano croci sul diario e sui quaderni, perché Ivan aveva detto che questo avrebbe attutito i suoi poteri. I ragazzi ormai lo consideravano il loro capo perchè Ivan dava sempre nuove informazioni sul vampiro ed aveva iniziato a credere che la sua missione fosse quella di sconfiggere il male nella scuola e di dover da grande fare il cacciatore di vampiri.
    Era passato meno di un mese ed Ivan risolse il mistero dei capelli, durante la ricreazione mentre Elio era in bagno disse mentre gli altri pendevano dalle sue labbra – Il vampiro del disegno hai capelli neri perché beve il sangue umano, appena Elio berrà il sangue umano anche lui avrà i capelli neri e gli altri poteri –
    I ragazzi avevano spostato i loro banchi il più possibile da quello di Elio e tenevano in classe le sciarpe anche se c’erano i termosifoni accessi perché avevano paura di essere morsi. Ruggero soltanto invece continuava a parlagli come se niente fosse, anzi continuava durante le lezione a guardare ammirati i suoi capelli, era come ipnotizzato da quelle ciocche bianche dalla consistenza setosa che adornavano il suo capo.
    Elio un giorno non potendo sfogarsi con gli altri apostrofò Ruggero – Smettila di guardarmi tutto il tempo –
    Ruggero non se la prese e poi serio disse – Voglio diventare anche io un vampiro –
    Elio sorpreso chiese – Perché mai? –
    - I vampiri hanno grandi poteri, possono volare e entrare nelle case e possono ipnotizzare, ma soprattutto sono immortali –
    - Io non ho nessuno di questi poteri… -
    - Gli altri sono convinti che tu devi bere il sangue prima di averli ed allora i tuoi capelli diverranno scuri. Facciamo così, tu bevi tutto il mio sangue così quando io muoio diventerò un vampiro –
    - Ne sei sicuro? Chi te l’ha detto? –
    - Mio padre dice che è così, ha un libro sui vampiri. Pensaci avrai i tuoi poteri! –
    Elio non era molto convinto, e poi il sapore del sangue non gli piaceva, l’aveva assaggiato una volta quando si era ferito e non gli era piaciuto affatto, aveva un sapore ferroso che trovava disgustoso.
    Ruggero lo tormentava chiedendogli ogni giorno se ci aveva pensato, se finalmente era d’accordo e quando potevano fare il rito e tutta una serie di cose del genere.
    Alla fine Elio acconsentì, avrebbe bevuto il sangue del suo compagno di banco, ma bisognava solo trovare l’occasione adatta. Qualche giorno dopo la maestra stette male e fu sostituita da una supplente, Elio e Ruggero riuscirono a trovare un momento per sgattaiolare senza essere visti e si diressero in una classe vuota. Nella scuola la sera c’era solo la loro classe, il direttore e un bidello, così fu facile trovare un posto dove nascondersi per il rito.
    Con gessetto Ruggero disegnò delle strane forme per terra che secondo lui l’avrebbero aiutato per ottenere i suoi poteri. Elio provò a mordere il collo di Ruggero, all’inizio non aveva il coraggio, ma poi pensò che con i suoi poteri avrebbe potuto vendicarsi dei compagni e strinse più forte i denti riuscendo a provocare una piccola ferita. Il bidello che aveva sentito rumori e vista la luce in una classe in cui non doveva esserci nessuno, si allarmò ed entrò, il bidello non comprese quello che succedeva e pensò che i due ragazzi si stavano prendendo a botte.
    Elio stette per punizione due giorni a casa, la madre lo rimproverò aspramente, dopotutto non era mai stato violento, non si sarebbe mai immaginata che Elio avrebbe potuto ferire un compagno. Il ragazzo non gli raccontò la storia del vampirismo e di ciò che aveva subito a scuola e nemmeno che era stato Ruggero a chiedergli di morderlo, sentiva che tutte quelle storie appartenevano a lui e che i suoi genitori non potevano capirlo, si sentiva diverso dai suoi genitori, dopotutto per lui erano solo degli umani.
    Mentre egli era assente, gli altri ragazzi allarmati discutevano su quello che era successo e durante la ricreazione si riunirono in gruppo. Luigi per primo disse – Bisogna fermarlo, non ha bevuto tutto il sangue di Ruggero, ecco perchè non ha ancora i poteri –
    - Appena avrà i poteri ci trasformerà in schiavi – intervenne uno.
    - Si vendicherà sicuramente – aggiunse un altro. Tutti iniziavano a sostenere che non erano al sicuro, una volta che un vampiro assaggia il sangue non la smette più.
    - Che possiamo fare? Teme solo il sole! – disse una bambina con gli occhi lucidi.
    - C’è un modo – disse Ivan trionfale – bisogna mettergli un paletto di legno nel cuore –
    Ci fu un mormorio di agitazione, non tutti erano d’accordo, nessuno voleva usare un paletto, dopo lunghe discussioni però tutti cominciarono a essere d’accordo. Luigi era un perfetto leader e alla fine anche gli ultimi dubbiosi non volevano restante fuori dal gruppo. Si decise che tutti tornando a casa avrebbero cercato pezzi di legno appuntito, in mancanza anche un pezzo del legno di una scopa.
    Quando Elio tornò a scuola, poteva quasi sentire con mano gli sguardi carichi di odio, tutti i bambini aspettavano solo l’occasione per mettere in atto il piano. La sfortuna volle che il bidello chiamasse la maestra che doveva recarsi in direzione.
    Appena la maestra uscì, Elio si alzò e si avvicinò alla porta, aveva tutti gli occhi puntati, tutti in silenzio lo guardavano con odio, senza smettere di fissarlo cercavano con la mano nello zaino gli arnesi appuntiti. Quando sentirono il rumore della porta della stanza del direttore chiudersi, Luigi scattò in piedi prese quello che era un bastone che aveva reso aguzzo con un coltellino e chiamando la sua truppa a raccolta si scagliarono verso Elio. Il ragazzo scappò via, gli altri si gettarono caoticamente all’inseguimento sbattendo sui banchi e accalcandosi per uscire dalla porta. Ivan che era rimasto imbottigliato dietro, gridava come un ossesso mischiando parole italiane e romene, le altre voci si sopraffacevano a vicenda, ma il messaggio risultava lo stesso chiaro: era una sentenza di morte.
    Si riversarono tutti nel largo corridoio piastrellato e illuminato dalle asettiche luci al neon, Elio aveva solo qualche metro di vantaggio quando qualcuno iniziò a lanciare bulbi d’aglio e qualche legno. C’erano solo cento metri fino alla porta del direttore che Elio corse senza fermarsi, dietro i ragazzi gridavano rabbiosi anche parole senza senso. Ivan e Luigi incitavano i compagni a correre più veloci prima che potesse riuscire a scappare o mordere qualcuno per acquistare i suoi poteri.
    Elio arrivò a qualche metro dalla porta del direttore, la maestra aprì la porta turbata dal rumore del corridoio. Diede uno sguardo sul corridoio davanti a lei c’era una folla inferocita, non le sembrava la sua classe ma un branco di feroci aguzzini. Si ricordò che nelle scuole private non volevano problemi, chiuse la porta e si appoggiò contro lo stipite caso mai qualcuno volesse entrare.
    Ultima modifica di the darkness; 12-06-2008 alle 12:18:13

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