Contest letterario #6 - Sogno - Pag 2
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Discussione: Contest letterario #6 - Sogno

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  1. #16
    $more$
    Ospite
    LOCKDOWN

    Davanti a te, una bocca si socchiude, incurante delle parole amare che escono dalla tua bocca.

    Si avvicina lentamente alla tua e, come uno stampo,preme la suddetta, facendo uscire la lingua profumata e premendola contro i tuoi denti.

    Il tuo pene si alza,va a picchiettare contro la patta dei suoi pantaloni...e ti sembra di sognare: è il momento tanto atteso, il tuo primo bacio, la tua prima ragazza.

    Ma c'è un ma: tu non la volevi baciare,perchè...perchè...perchè tutto questo ti sembra irreale, e provi l'innaturale sensazione di stare sbagliando qualcosa, sensazione che ti rende nervoso e -incredibile a dirsi- cauto.

    Poi, noti che le sue manine delicate stanno armeggiando con la cerniera dei tuoi jeans, e dopo averli aperti, li sfila...oh, sì.

    ***

    La mattina seguente ti trova in una sorta di prigione: sei in una stanzetta priva di finestre, l'aria è immota e il pavimento freddo.
    Le pareti sono metalliche e riflettono il tuo volto.
    Alla tua sinistra c'è una porticina, palesemente chiusa.
    Poi qualcuno tosse.

    Di fianco a te giace un uomo, il volto solcato da rughe, gli occhi rossi fuoco e catene ai polsi.
    Ti guarda con un odio indicibile, e ti accorgi che, se non fosse per le catene di cui è ricoperto, ti salterebbe addosso e ti ammazzerebbe.

    Hai paura ma, nonostante questo, gli chiedi biascicando: "Qual'è il tuo nome? Che ci faccio qui?"

    L'uomo abbozza un sorriso, e poi parla: "Mi chiamo AIDS".

    Poi capisci.
    è un sogno, logico, un sogno...hai scopato una ragazza, dopo una notte di fuoco ti sei addormentato, e ora sei qui...ti tiri schiaffi, ti dai pizzicotti, ma non ti svegli comunque.

    L'uomo sta ridendo, lo vedi chiaramente, ride dei tuoi patetici sforzi e al contempo sorride.
    Lui sa qualcosa che a te sfugge,è chiaro.

    "Senti vecchio, perchè ridi? Tu fai parte del mio sogno,percui se io voglio che tu scompaia, tu scompari, e..."
    Non fai in tempo a concludere la frase che la porticina si spalanca, lasciando entrare un omone alto all'incirca due metri.
    Libera il tuo compagno di prigionia, esce dalla porta e la richiude alle spalle.

    Ora siete soli.

    L'uomo ti guarda, sprezzante, come una belva che si prepara ad attaccare...e tu hai paura.
    Ti alzi di scatto, corri verso la porta e cominci prenderla a pugni, urlando come un pazzo.
    Ma non giunge risposta, non giunge risposta, no...sei in preda al panico più nero.
    L'uomo si alza in piedi e salta verso di te, ti morde il collo, ti dilania la carne, la senti strapparsi...e poi ti libera, di scatto e all'improvviso, facendoti crollare a terra ansimante.
    Il sangue gronda dal tuo corpo, ti fa male il collo e non riesci a fermare i fiotti di sangue, anche se ci provi (con un fazzoletto).

    "Sai quello che mi fa incazzare dei coglioni come te, lurido idiota? Mi fa incazzare il fatto che non usate il preservativo, che scopate come cani, senza alcuna precauzione. Siete incauti,giustamente poi ne dovete pagare le conseguenze. Questo è un sogno,certo. Ma questo sogno deve servirti come monito. Se ci tieni alla tua pellaccia,la pianterai di abbordare troie in discoteca. So che questa è la tua prima volta...ne consegue che sei ancora un novellino, facile da plasmare. Cristo,hai vent'anni. Non rovinarti la vita in questo modo,fai sesso protetto...poi puoi drogarti per quel cazzo che me ne frega, non spetta a me giudicare quel versante. No, io sono qua semplicemente per farti capire. E ora capirai."

    Estrae dalla tasca una siringa,la stappa e fischiettando si avvicina a te.

    Cerchi di scappare, e per un pò riesci a non farti beccare.
    Ma purtroppo per te la cella è piccola, ed è destino che prima o dopo, di riffa o di raffa, quel pazzo ti inietti il contenuto di quella orrida siringa.

    Quando lo fa, stranamente non senti dolore, solo un innaturale senso di distacco dalla realtà, e un lieve capogiro.

    Il mondo intorno a te inizia a roteare velocemente, e crolli al pavimento.

    ***

    Una sveglia suona da qualche parte.

    Apri gli occhi e vieni inondato dalla luce morbida e calda del sole, che ti ricopre come un guanto, pronta ad augurarti un felice giorno nuovo.

    Accanto a te la ragazza non c'è più, ha lasciato un biglietto sul comodino.

    "Ho preso i soldi dal tuo portafoglio, ora me ne vado. Stammi bene,baby, e vieni a trovarmi ancora, ci sarò sempre".

    Poi ti viene in mente il sogno...oh, che cretinata.
    Gli effetti del dopo orgasmo, supponi...massì, che vuoi che sia, i sogni non rispecchiano mai la verità.

    Però ti fa male la testa e hai la nausea,a tal punto che non riesci nemmeno ad alzarti dal letto.

    Una vespa entra dalla finestra socchiusa e ti punge...

    Otto ore dopo, la governante trova in camera un ragazzo sui vent'anni riverso al suolo, morto.
    Ultima modifica di $more$; 17-10-2007 alle 18:43:55

  2. #17
    Rullacartoni L'avatar di M.Uollas
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    sogni di supereròi

    Prefazione

    Una divagazione sulle molteplici possibilità del sogno raccontata in prima persona da marsellus Uollas.
    basta così

    Achita Bonille Alivo
    ------------------------------------------------------------------------------

    Sappiate che ieri notte mi sono accorto che era notte, infatti sono uscito in balcone e ho visto che era notte e ho detto "minchia, è notte!, sarà meglio andare a dormire"
    e ci sono andato.
    Durante il tragitto infinito che va dal balcone al mio letto mi sono detto:
    "Questa notte voglio fare dei sogni di supereròi!"

    ordunque mi chiesi, di quale supereroe voglio sognare?
    ci ho pensato un po' su e le scelte sono ricadute su 3 tipologie di supereròi, cioè queste tre:
    IL NINJA PAZZESCO,
    un HULK bestiale (però rosso anzichè verde e che si scrive ULC),
    una specie di SUPERMAN.
    sulle prime l'idea di sognare di essere il ninja pazzesco mi piaceva assai, se fossi un ninja pazzesco - mi dissi tra me e mestesso - potrei fare molte cose! tra le quali camminare sul fondo delle paludi respirando tramite una lunghissima cannula di bambù, lanciare un'infinità di stellette ningia, e ultima ma non ultime le capacità di lanciare l'urlo della morte e di suicidarmi trattenendo il respiro... FIGATA!!

    ma poi la cosa non mi è piaciuta moltissimo, il perchè non me lo ricordo (è stato ieri notte, è passato un sacco di tempo)
    e quindi sono passato alla possibilità 2 ; ULC.

    Essere un ulc bestiale è bellissimo perchè detenieni una forza bestiale e puoi spaccare tutto anche più volte, macchine, case, case* , coglioni, secondi e meloni, e inoltre puoi mangiarti le noci senza sgusciarle.

    Pensandoci a fondo però, l'idea di dovermi ritrovare sempre nudo come un adamo in mezzo alla strada una volta finito l'effetto di ulc mi ha fatto passare la voglia, ma ancora di più il pensiero di dover comprare vestiti in continuazione (la cosa non mi piace in modo particolare, per pigrizia ancora porto la maglietta della seconda media con scritto Miami scuba squad, quando la metto sembro jennifer lopez con la panza).

    Allora pensai di sognare di essere una specie di superman, ma anche li dopo i primi gagliardi pensieri di fermare una bomba nucleare con la mano, e di buttare un treno da un ponte mi ricordai che superman è l'unico supereròe senza maschera... ma pensa te.

    A lui non lo riconoscono quando si mette gli occhiali e viceversa, ma con me non funziona sta cosa, a me mi riconoscono sia che ho gli occhiali sia invece no, per cui superman non posso farlo.

    Cmq, alla fine, senza avere concluso nulla, mi sono detto " vabbè deciderò strada facendo" mi sono addormentato di botto e poi ho sognato Marco Predolin che voleva sapere da me che cosè il "verginismo".

    La cosa brutta è che nel sogno cercavo di convincere marco predolin che il verginismo fu un importante corrente filosofica letteraria del '500

    note a fondo pagina:

    * Del PC



  3. #18
    Cowboy in Love L'avatar di Loto.Nero
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    Posse Fossibile

    Ricordo filtrasse poca luce nella stanza. L’abbraccio delle tende mosse dal vento non permetteva ai miei occhi di avere una chiara idea di che ora fosse.
    Le coperte mi avvolgevano strette nella loro morsa e il soffitto sembrava alitarmi in faccia, era freddo, più freddo di quanto ne avessi mai provato.
    Improvvisamente una forte luce bianca fendette l’aria passando per le fessure della finestra così che ebbi chiara l’idea di dove fossi. Era la mia stanza, il luogo più familiare che potessi avere. La mia stanza mi parlava con parole a me sconosciute. Sentii dei passi, veloci, incalzanti sopra la mia testa come se qualcosa stesse correndo sulle pareti della mia stanza. Non sapevo cosa fosse quella luce ma il mio respiro aumentò di conseguenza. Credetti di avere il cuore sulle labbra quando con voce flebile chiesi “aiuto”, poi chiusi gli occhi.

    Mi svegliai, aprii gli occhi, ed ero lì, sdraiato nel mio letto a guardare il soffitto della mia stanza. Sospirai rannicchiandomi tra le coperte fin sopra gli occhi cercando di recuperare i brandelli del mio cuore in frenesia.
    Lasciai scivolare i piedi giù dal letto con l’intenzione di trovare il pavimento e la strada per la dispensa. I miei occhi persero colore alla sensazione che provai; un freddo tagliente mi percorse tutto il corpo nel sentire i miei piedi appoggiarsi su qualcosa di più simile a una lastra di ghiaccio che a un tappeto.
    Non ebbi il coraggio di vedere su cosa vi fosse in terra ma avevo la certezza nel cuore che quella fosse la mia stanza. Almeno fino a quando il buio non venne nuovamente ferito dalla luce filtrata dalle finestre. Di nuovo i passi, di nuovo quella sensazione. Gridai “aiuto”, scivolai, poi caddi sulle ginocchia.

    Mi svegliai, nel mio letto ancora una volta.
    A trattenere il cuore tra le braccia, ancora una volta.

    Stavolta non persi tempo, scesi dal letto, corsi fuori dalla mia stanza senza curarmi del freddo che ne avvolgeva l’aria. Gridai “Papà!”.
    Sentii la sua voce chiamarmi dalla sua stanza “Sì, sono qui”.
    Corsi verso la porta della sua stanza e con violenza la spalancai, lui mi guardò da dietro le tende, la sua nuda sagoma in ombra, la stessa forte luce alle spalle.
    Tese le sue braccia e disse:

    “Abbracciami, fa freddo”.
    lotonero.deviantart.com // stefanobroli.it

    Citazione Tuco Benedicto Pacifico
    Ciao, sono il sarcasmo, vuoi essere mio amico?

  4. #19
    Blue L'avatar di kokkina
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    Il racconto che sto per postare l'ho scritto perchè sono stata ispirata proprio da un sogno. In pratica il mio racconto è un sogno che ho fatto, mi sono divertita a scriverlo proprio per questo motivo, tutto qui.

    Demoni interiori

    Non avevo idea di dove mi trovassi.
    Non sapevo neanche se si potesse definire un luogo, e non riuscivo a capire se ciò che stavo vivendo, o che credevo di stare vivendo fosse reale, o quantomeno lontanamente paragonabile a ciò cui la mia coscienza era abituata.
    Sebbene fossi molto confusa riuscivo a distinguere altre anime, ché in altro modo non saprei definirle, così reminescenze del passato mi suggerirono la parola “morte”.
    “E così è questo che c’è oltre la morte?” pensai.
    Le altre coscienze si ponevano uguali domande, e vagavano all’interno di quel non luogo, forse facente parte di un’altra coscienza.
    Non riuscivo a ricordare nulla del mio passato, come fosse terribilmente remoto, e in quello stato non ero in grado di comprendere ciò che mi circondava.
    Provai ad avvicinarmi a qualcuna delle altre anime, ma non riuscivo a comunicare con loro, leggevo solo perplessità. Trovavo muri ovunque, e ebbi l’impressione che tutto quello che era il mio mondo prima di questa strana esperienza fosse tutta un’illusione.
    Mi stupii nel constatare la diversità delle mie riflessioni, la cui natura mi era del tutto nuova.
    Era come se fossi guidata da semplici sensazioni, eppure qualcos’altro mi delineava come unica, era come se avessi conservato parte della mia identità, ma non so perché questo mi sembrava potesse essere solamente un fardello.
    Tutt’a un tratto percepii una presenza differente, e a giudicare dalla confusione che proveniva dalle altre anime, anche loro l’avevano sentita arrivare.
    Che cosa fosse non saprei dirlo neanche ora, e le parole non mi sarebbero d’aiuto, ma se devo sforzarmi di fare una descrizione umana di ciò che umanamente non si può definire, direi che si trattava di un demone.
    E credo che la mia natura adesso mi porterebbe a immaginarne l'aspetto come quello di una donna non più giovane, dai capelli biondi e dal ghigno fisso sul suo volto, sebbene tutto questo sia una mia personale interpretazione.
    La comparsa del demone gettò scompiglio tra le anime, e anche la mia coscienza percepiva qualcosa di poco piacevole, presagio di sventure.
    L’entità demoniaca ci attirava a sé come le falene sono attratte dalla luce, ma noi, o ciò che rimaneva del noi di un tempo, avevamo come la certezza che ci saremmo bruciati.
    Mi sforzai di ricordare cosa significasse essere vivi, di ricordare di cosa fosse fatta la mia vita, ma ciò che risulterebbe normale ad un uomo, per me era del tutto incomprensibile o irrimediabilmente lontano.
    Riuscivo solo a ricordare degli occhi, e qualche altra cosa che non mi provocava alcuna sensazione.
    Improvvisamente però provai delle emozioni così intense da farmi credere di essere io stessa un’emozione, e forse era vero, perché non sapevo spiegarmi l’ondata di profonda solitudine che divenne un tutt’uno con la mia anima.
    Così mi trasformai in tristezza, mentre il demone era sempre più vicino.
    Non sentivo più null’altro che sconforto, e non esisteva nulla all’infuori di me.
    Dimenticai anche il demone, che però cominciò a fondersi con la mia coscienza, e fui investita da migliaia di sensazioni, mentre i pensieri si fecero corposi, simili a quelli che avevo avuto in vita.
    E provai dolore, nonostante non avessi più un corpo.
    Così fui travolta da un’ondata di ricordi in ordine sparso, immagini, pensieri, emozioni.
    Ed era dolorosissimo. Sembrava dovessi espiare le mie colpe con quel dolore atroce.
    E ricordai il mondo in un modo strano.


    Vetri sporchi, antenne viscide, morti, vivi, occhi roteanti, luci invise.
    La poesia del momento distrutta.
    Ambiguità, menzogna, ipocrisia, cattiveria, rivalsa.
    Continuai a ricevere immagini confuse.
    L’inchiostro che scivola sulla carta, si rapprende. Desiderio di solitudine, di svuotarsi.
    Il suono di un flauto, i violini. Io che corro in un prato insanguinato, lui si gira, irrimediabilmente legato al liquido scuro.
    Solitudine infinita, e nessuna scappatoia.
    Non è necessario rifugiarsi nella mente per conoscere l’orrore.
    E il mio cuore stretto in una morsa.



    Non credevo che quelle immagini del mondo corrispondessero all’intera mia vita, eppure non c’erano cose belle tra quelle che riuscivo a ricordare, e il dolore si faceva sempre più lancinante.
    E quando pensavo che avrei passato l’eternità in quello stato di sofferenza feroce, allora mi resi conto che il dolore diminuiva e che un’altra coscienza si faceva più vicina alla mia.
    Era come se il demone si fosse impadronito di tutto ciò che c’era di impuro nella mia anima.
    Pensai fosse un passaggio obbligato dopo la morte, ma non ero in grado di comprendere cosa mi stesse realmente accadendo.
    Mi chiedevo che cosa ne fosse stato delle altre anime che erano con me, se anche loro avessero provato ciò che avevo provato io, ma non ebbi la forza di pormi domande.
    Sentivo solo quella coscienza farsi sempre più vicina, così come si era fatto vicino il demone.
    Non provavo nulla al suo avvicinarsi, semplicemente stavo dimenticando tutto, il demone, il dolore, le altre anime.
    Sentii che mi stava per racchiudere in sé, e che io stavo perdendo completamente me stessa, era come se stessi diventando un fazzoletto bianco, o se lo fossi già diventata.
    Tutta la mia vita passata era stata inutile? Dopo la morte non c’era altro che un’abluzione?
    Tutto cancellato, nulla era mai esistito.
    O forse no.
    La coscienza che mi aveva fatto dimenticare del mio dolore si era ingigantita, aveva quasi terminato di avvolgermi, e In quell’esatto momento ebbi la certezza che mi sarei reincarnata.

  5. #20
    Ex videogiocattolaio L'avatar di Mao-t
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    Citazione Loto.Nero Visualizza Messaggio
    cut
    Avrai il mio voto.
    Semplicemente sublime.

  6. #21
    lato oscuro della forza L'avatar di the darkness
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    sto finendo di scriverlo, verdrò stavolta di dargli una "mano" di correzzione, sperando di averne il tempo

  7. #22
    Oggettivista L'avatar di space king
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    Magari la resa dei conti è solo un tassello...

    Certo sapeva che qualcosa stava andandosi incrinando, quantomeno nel rapporto fra lui e chi da lui gli ordini ascoltava. Ascoltava. Era cosciente della turba che aveva scatenato, che non poté granché placare, sicché il ricordo della persona forse a lui più cara oscurasse il suo ruolo e anzi lo confondesse così tanto da non capire allora che gli altri, gli alieni da lui, accettassero malvolentieri un altro tassello nel loro pantheon. Perché Drusilla per lui lo era stato, e voleva che lo fosse per l’umanità intera, desiderava che il suo dolore fosse il dolore di tutti, le sue gioie passate riproposte in riti futuri. S’era reso conto, di quell’atto effimero, in quel ripostiglio. E come di quello, di tanti altri. Ne era cosciente perché era troppo tardi. Ne era cosciente perché quello stambugio sarebbe stata la tua tomba. Più alcun oderint. Si preoccupò che la tunica non strisciasse al di là della linea d’ombra, che le caligae fossero ben allacciate, perché vivere nascostamente, frainteso, non fosse tradito. Eppure, nonostante fossero già penetrati nel palazzo, in blocco, continuava a udire l’accompagnamento musicale di cui amava avvolgersi. Pur nella rassegnazione, subentrata alla codardia e al timore, paradossalmente un eccesso di lucidità lo costrinse ad assaporare ciò che di appagante e gradevole avesse ottenuto da quell’esistenza. E allora distinse il timido percuotere distante di un cimbalo, lento, docile, sempre più ritmato, sinché a quello non si accostasse una, poi più tibiae, per includere il placido frastuono del rame dei crotali, e tutto insieme, una melodia che non temesse paragoni. Li udì giungere dal corridoio, i pesanti passi dei loro calzari erano indubbi presagi dell’imminente termine di tutto ciò che era stato. Ma le tibiae continuavano a soffiare, i crotali a battere, i cimbali a percuotere, tutti insieme, e anche un lituus s’era imposto baldanzoso al suo orecchio, tutti insieme, in un fragore che rammentava orge olimpiche, tutti insieme, e il gran lituus il fiato dell’orgasmòs d’una battaglia vincente. Tutti insieme, ma lui nascosto. Pensò che doveva udire simili echeggi anche la sua consorte, dal momento che la percepì urlare, o così credette, di lontano, da una grande sala, come Priamo da Neottolemo. Uniti, come mai lo erano stati, nel destino, perché i pretoriani decisero d’eliminarne il seme, di quella zizzania, nemmeno la radice. Ma più che Cesonia, più di tutti la felicità – pensò – doveva investire colei che sola era la sua prosecuzione nell’esistenza, la tensione dell’orgoglio della sorella, zia, Drusilla, un solo nomen per due dominae. Anche le sue strida spandersi. Anch’esse, nel clangore di gladii e strumenti, parse d’udire. Entrambe trucidate. Cassio e Cornelio non si sarebbero fermati. “Arrestate il passo, i vostri calzarsi sono troppo mordaci”, avrebbe voluto pensare. Persino dei servi si dispiacque.
    Poco lontano, nell’Ermeo, un tremulo uomo di mezza età incollava le spalle al muro, atterrito dall’eccidio. Urla d’ogni parte. Quando la porta s’aprì, era già fuggito altrove, ma i suoi calzari furono facilmente notati sotto una purpurea tenda dell’ingresso del solarium. Quando si gettò in ginocchio ai piedi d’un semplice soldato per implorarne la grazia, Claudio dovette pensare che suo nipote non emise nemmeno un urlo mentre veniva trafitto da un pugio qualunque.
    Era un’anima qualunque che spirava, un’anima in pena.

    Nella sedia a dondolo, il legno scricchiolava un po’, consunto dai molti usi. La mano sinistra, appoggiata a un bracciolo, leggermente tremula, tradiva la sua storia. L’uomo sulla sedia aveva ben chiaro che il suo compito era stato portato a termine, sebbene qualcuno non lo avesse compreso a fondo, ma era un rischio già calcolato e accettabile. La sua testa stava ormai seguendo le orme dell’arto sinistro, e finché è una mano a deteriorarsi, la sventura può anche non nuocere (tutt’altro); ma allorché trattasi del cranio, la sventura porta al termine della propria esistenza, lo sapeva. Incapace d’emettere alcun suono, ma cosciente della realtà, l’unico appiglio rimaneva il ricordo. Il ricordo di quel suono sbarazzino d’uno stornello agitato, che imparò da subito a far suo, con il quale allietò molti animi, ma che, fortuna sua, non durò molto. La vita che conduceva non era delle più regolari, e come molti in quegli anni, vedeva il denaro accostarsi e sfumare. Nella città romanticamente banalizzata poi, era addirittura necessario per un artista vivere a quel modo. In una roulotte trascorreva le ore ingegnose, volgendo l’animo agli animi di chi ascoltava. Melodie di lontana ispirazione e accordi complessi. Una notte il fuoco divampò in quell’improvvisata dimora e non si avvide dell’accaduto, quantomeno non in tempo. In tempo perché un gesto, fors’anche azzardato, lo privasse dell’uso completo della mano sinistra, ritrovandosi con due dita atrofizzate. Jean Baptiste fu costretto così ad abbandonare il banjo. Quello che accadde dopo fu solo frutto del fato che incontrò il genio. Pensò che un giorno il Destino dovette passeggiare tranquillamente lungo una via, una via che casualmente stava percorrendo anche lui. Ci si impaurisce un po’, guardandolo dritto in faccia, il Destino, ma al riparo dalla pioggerellina incessante e dall’uggia riflessa nella Senna, il torturare quella leggera e delicata chitarra la tenacia avrebbe dato i suoi frutti. E allora vivo e maestoso, imperioso è il ricordo dell’ottusità delle grandi sale viennesi, dove ampi gesti melodici venivano guardati con disdegno da alcuni astanti. Gli si preferì una danza più umana, più ritmata, una musa che non agitava le membra con ampi gesti, ma che simulava un satiro. E volò in un paese lontano dai suoi sereni fasti fiamminghi, a est, dove tutto è roccia e levar del sole, in carovane allegre e malandrine, con danze ammiccanti, ove gente d’altra età, d’altro loco, strimpellava e si dimenava. E tornò, per proseguire oltreoceano, da cui sentì provenire uno strano personaggio, mancante d’un incisivo. Nessuno seppe mai se fu a causa della sostanza di cui era schiavo o d’una scelta di vita, ma tant’è che il soffio che ‘the Holy Hole’ originava era superbo. E volle cercare il suo mondo, quello di Chet, scrutarlo, analizzarlo, sezionarlo, estrapolarne ogni singola nota. Ne trovò il bandolo e lo incollò insieme allo zigano e al musette, in un miscuglio che quell’anulare incapace e quel mignolo indolente potevano comunque accompagnare. Perché quella sera, in quella sedia a dondolo, il suo capo s’adagiò sulla spalla, s’aprì una nube col barlume d’un lampo, di quel che era stato l’Hot Club, di quel che aveva mutato in ciò che gli animi assorbono e condividono, di cui gli animi si nutrono. S’adagiò, insoddisfatto del ricordo. Incapace d’ammettere di aver toccato il limite. Mai rassegnato all’ascesa. S’adagiò e spirò, quell’anima, un’anima in pena.

    Ancora cosciente, suo malgrado. Lo era sempre stato, sin dal principio. Cosciente non di quel che gli accadeva intorno, non di ciò che la gente congegnasse per riuscire, fra un ridondar di campane e una risatina flebile di fanciulla, a mantener saldi i rapporti l’un l’altro, non di come la vita sfuggisse loro di mano serenamente giorno dopo giorno. A suo detrimento poggiava il capo in un cuscino ricamato di finissimo pizzo, nel rifugio ove lui stesso aveva richiesto soccorso. Suo malgrado, era stata una sua scelta. Prese una decisione che non avrebbe voluto, dettata dal logorio della mente, dal lento sfrondarsi del suo intelletto, sotto i colpi incessanti d’una realtà che non gli lasciava tregua. Perché più la comprensione per lui s’avanzava, più la società s’adombrava. Nel momento in cui premette contro il proprio addome la rivoltella, decise in un impeto di debolezza che non avrebbe più sopportato d’andare oltre. Che il suo livello di comprensione del mondo, delle cose umane e delle meccaniche esistenziali – ridicolo a dirsi – dovesse trovare lì il proprio compimento, il proprio termine. Quando bussò alla porta dei coniugi che senz’esitare gli prestarono le dovute cure, forse dovette pensare a una sorta di pentimento. Perché confessò tutto, vuotò il cuore a coloro che non potevano colmarlo. Nell’attimo in cui avvertì qualcuno prestargli attenzione, dipinse i loro volti di sfumature chiare, limpide, e accese i loro occhi d’un candido sfavillante. Ma quella notte li rammentava nella memoria a tinte oscure, ancora, come s’erano sempre manifestati in nefaste epifanie psicotiche. E correre lungo il torrente sovrastato dal paglierino assolato d’un piccolo ponte circondato d’alberi, o passeggiare per le stradine incrociando gli occhi con stranieri, tutti stranieri, o sdraiarsi sul pavimento nell’invito ammiccante di Sien, o privarsi dell’arto come il romano per Kee. Divenivano gesti adusi, futili. Comprendere. E condividere. Perché nella natura umana, non perfetta e limitata, è necessario che il raggiungimento venga condiviso con gli altri esseri umani, che tutti ne siano partecipi, per sfoltirne la responsabilità e la colpa. Non di quel che gli accadeva intorno, non di ciò che la gente congegnasse per riuscire, fra un ridondar di campane e una risatina flebile di fanciulla, a mantener saldi i rapporti l’un l’altro, non di come la vita sfuggisse loro di mano serenamente giorno dopo giorno. Di questo era cosciente. E provò a condividerlo rendendo visibile agli occhi quell’immagine di realtà ghermita e strappata alle grinfie dell’insulso. Avrebbe voluto che tutti avessero apprezzato lo sforzo e colto le sfumature e i colori, che avessero compreso come e perché l’olio d’un pennello s’adagiasse convulsamente e docilmente su una tela. Una sola di esse fu acquistata. In tutta la sua vita. Parecchie furono guardate, osservate, ammirate, criticate, ma una sola fu oggetto di desiderio. Nessuna di esse, invece, fu colta nello splendore della conoscenza. Semplici temi floreali decorativi. Uno fra tanti. Solitario, solo, isolato. Aveva compreso il valore delle stelle in uno oscuro firmamento e per questo solitario. Aveva compreso l’umano rifugio concreto da esse nell’assordante luce d’un semplice caffè e per questo isolato. Aveva compreso la solitudine dell’uomo e per questo solo. Quando in un letto di Auvers un uomo esalava l’ultimo respiro col pensiero volto al nome dell’unico altro uomo che l’avesse mai compreso, Theo, un’anima riacquistava la sua serenità.

    Nell’eremo dell’antro galattico, o forse nell’immensamente minuscolo d’un granello di materialità terrestre, un’anima s’interrogava su ciò che potesse comportare un ulteriore tentativo. Aveva sperimentato dapprincipio l’ardore caotico della passionalità d’ogni essere umano, lasciandosi trascinare dall’onda devastatrice dell’inganno terreno. Correggendo il tiro, s’era concentrata sull’eventuale reindirizzamento degli animi attraverso la melodia, nella speranza che l’allietarli potesse foraggiare i loro intelletti. Da ultimo saggiò l’inconsistenza della materia umana, la sua limitatezza, imperfezione, il suo essere effimera. Ne constatò la natura fugace, l’intento caduco, la confezione ridicola per un proposito tanto ardito. Ne derivò che la sostanza non si confaceva alla forma, scoperta non banale, se non vissuta. Lasciare all’uomo ciò che la sua finitezza avesse programmato, lasciare che liberamente potesse esprimersi entro i propri confini, che lo spingersi oltre non comportasse sofferenza, che il non provarci indignazione. Scorse inoltre una piccola incongruenza in tutto ciò, giacché l’animo umano per non incontrare questi ostacoli, avrebbe dovuto non possedere del tutto la volontà d’addentrarsi in quest’antri. Invece la possiede, ed è lì a farsi beffe della propria pochezza. Vagando nell’incanto del sentiero che percorre l’infinito, attraverso gli astri, si distrasse nel cimento d’una cognizione più profonda. S’arrestò nella riflessione accanto a una fonte, si ristorò e riprese il cammino. Accelerò nell’esiguo, moderò nell’immenso e vanamente si diede certo della propria essenza. Dovette esistere, per sapere d’essere. E dovette essere, per potere esistere. Allorché dopotutto apparve non poi così fallace la propensione dell’essere umano verso l’oltre, non così impropria la sua tendenza impostagli alla nascita. Non v’era alcun errore, era del tutto naturale. Nel corso dell’esistenza ne aveva rasentato la cognizione. Un corso irrilevante, giacché il tempo è irrilevante. Così come l’essenza di qualsiasi elemento umano nella sua singolarità. Quel che laggiù chiamano un Caligola, un Reinhardt o un Van Gogh.
    Ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta,
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  8. #23
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    Si alzò dal letto, l’alba era vicina ma il cielo era ancora preda delle tenebre e dei demoni della notte appena trascorsa. L’uomo controllò il letto, per quanto fosse disfatto sulla metà destra non c’era segno di calore umano, la diafana presenza che l’aveva popolato era solo frutto del sonno. Si diresse verso il bagno, tentennò nell’accendere la luce non voleva disturbare le arcane creature che lo popolavano. La fredda luce a fluorescenza si accese vibrando, il bagno era la stessa stanza dall’aspetto asettico, sorrise al solo pensare che anche un ragno potesse scegliere come tana un posto così privo di entropia. Il contatto con lo specchio era la fase critica della mattina, non sopportava che il suo volto fosse catturato da quell’arnese infernale, non osava romperlo per paura che si rivelasse come il ritratto di Dorian Gray. Eppure l’idea di scomparire insieme alla sua immagine riflessa era un idea che solleticava, colpire a morte il suo nemico per colpire in fondo se stesso. Eppure anche se non voleva arrivare ad un’idea tanto drastica, l’angolo buio del ripostiglio ai suoi occhi sembrava il sarcofago adatto per quella lastra malefica. Non aveva mai avuto il coraggio, gli ultimi cinque anni erano passati nell’eterno pensiero di toglierlo dalla vista, forse quel suo profondo odio o il tempo avevano corroso un poco la base dello specchio. L’immagine che si muoveva ipnoticamente nello specchio era il ritratto impietoso di un uomo dall’età indefinibile, ma che comunque copriva il mezzo secolo; mentre si sciacquava la faccia l’acqua correva via attraverso i sottili canyon che si era scavata sulle guance giorno dopo giorno, i capelli si erano ingrigiti e gli occhi si erano infossati. Il viso squadrato, il mento tagliente si erano affilati di più negli anni, non era quello che si potesse definire un bel viso, sembrava martoriato da cicatrici nascoste che spuntavano solo in controluce. Il corpo non era atletico, ma non c’era stata nemmeno una proliferazione di tessuto adiposo, sembrava che fosse mummificato e disidratato da tutto il lavoro sedentario che l’aveva visto protagonista. Il breve corridoio che lo introduceva alla cucina era un altro dei momenti drammatici, una galleria di cimeli di quel periodo arcaico e di follia che la gente definiva invece matrimonio. Entrò in cucina, altro luogo dove preferiva trascorrere meno tempo possibile, sentiva quella stanza al di fuori dei suoi domini, indugiava sempre sull’uscio, chiedeva sempre il permesso di poter entrare. Le presenze che l’abitavano restavano fedeli all’antica padrona, per quanto l’ordine degli oggetti non gli fosse comodo non osava apportare cambiamenti perché non credessero che fosse un’ostile interferenza. Questo era il modo di giustificare le sue piccole ossessioni, i suoi piccoli riti quotidiani, la sua turba a cambiare la disposizione dei mobili, però riconosceva egli stesso di essere ospite in quella zona della casa, e le case di campagna sono sempre più ostili ai cambiamenti, una sorta di atteggiamento conservatore che si trasmetteva anche ai padroni.
    Con cura scelse i suoi vestiti, una fredda camicia e un paio di pantaloni che lo aiutassero a rendersi anonimo per strada, scarpe e calzini non potevano dissociarsi dalla linea tenuta dagli altri capi di vestiario. Solo l’orologio sembrava più appariscente, ma cominciava anche esso a farsi contagiare, il metallo del cintino si opacizzava e il vetro del quadrante a scalfirsi schermando leggermente la visione.
    La barba leggermente incolta con il suo alternarsi di svogliati peli bianchi e neri troneggiava sul viso, la frangetta un po’ più lunga del previsto e gli occhiali nascondevano una velata inquietudine negli occhi.
    La sua casa di campagna sarebbe stata splendida se fosse stata vissuta di più, se un viavai di gente ne avesse attraversato l’uscio, se fosse stato rotto il noioso ordine. Eppure per quanto odiasse quella casa diventata statica, un mausoleo di ricordi non poteva modificarla perché una gabbia mentale ormai lo imprigionava. La campagna fuori dalla casa era scossa da potenti vibrazioni, a cui non fa caso abituati al caos cittadino, egli stesso che fuoriusciva da un mondo chiuso e fermo era ferito anche dalla leggera brezza del vento che muoveva le foglie e dal saluto degli insetti al sole. L’inconscio divorava le inquietudini notturne, la luce incerta dell’alba cominciata a prendere coraggio, lo dimostravano le ombre che diventavano sempre più nette finché il sole non signoreggiava il cielo. La corsa in auto verso la città, era un flusso di coscienza, faceva la scaletta della giornata, ed era sempre preda di ciclici pensieri. Era un affermato professore, era ormai un affermato sacerdote di quell’arte che insegna, i suoi scritti erano nettare per gli studiosi in erba e il loro valore era riconosciuto anche dalla aristocrazia della scienza, il suo nome scritto all’inizio di un articolo vinceva perfino lo scetticismo dei professoroni per le innovazioni. Gode la stima dei suoi colleghi, era un ospite fisso dei loro collegi, delle piccole manifestazioni casalinghe, dei piccoli raduni adibiti allo sfogo di erudizione. Vinceva le giostre moderne con le sue forti stoccate, i suoi sillogismi arguti, la sua solida cultura che gli faceva da corazza. Per quanto la sua ombra si ponesse su tutti buffet della scienza mondana, per quanto richiedevano la sua presenza ai grandi party che si organizzavano non smetteva di essere scontento. Il matrimonio era stato un disastro, aveva trovato sua moglie un burattino senza anima, era la sola frivolezza a tenerla in piedi, non c’era amore, ma solo attrazione. Eppure forse perché ormai aveva divorziato la bramava ancora, ne sentiva una profonda nostalgia. Lui che disprezza gli uomini muscolosi, che usano il cervello solo per le attività vegetative, brama di essere come loro, di mischiarsi e di amalgamarsi. Avrebbe voluto amicizie diverse, frivole, bramava tutto quello che non era.
    La giornata trascorse lentamente, non era un periodo movimentato, c’erano momenti in cui non aveva altro da fare che rimuginare guardando fuori dalla finestra.
    Anche la sera aveva una sua liturgia, bisognava avvicinarsi alla casa e chiedere il permesso di entrare, di violare l’uscio e dirigersi sfiniti verso la cucina. Sembrava riavvolgere il nastro della mattina, si svestiva, si lavava e dormiva.
    La notte era la chiave di svolta della giornata, quando perdeva conoscenza sognava una casa in città, un appartamento al ventesimo piano di un grattacielo grigio che si affacciava su un accozzaglia di luci e di insegne che la cappa di inquinamento rendeva come un quadro impressionista. Il sole filtrava dalla finestra e dorava quel che bastava il viso abbronzato di un uomo che si avvicinava a cinquant’anni. Appena si alzava la moglie mugugnava come a chiedergli di rimanere a dormire, l’uomo scattava agile, si vestiva e usciva dalla casa come lanciato da una molla. Approfittava del debole calore della mattina per mettere alla prova i suoi muscoli, si immergeva nel piccolo parco assediato dai grattacieli per fare un’oretta di corsa. La doccia ristoratrice era un altro dei suoi riti mattutini, il forte scroscio dell’acqua gelida dava l’impressione di levigare i muscoli scolpiti.
    Si dirigeva in cucina dove lo aspettava una ricca colazione, e una moglie sorridente che gli chiedeva come fosse andata l’attività fisica mattutina. Tornava a vestirsi e a prepararsi per il lavoro, la stanza era invasa da vestiti appallottolati, riviste e giornali, attrezzi da ginnasta.
    L’uomo entrava in ascensore, salutava con un cenno i vicini e scherzava sul tempo e sulle notizie locali; si dirigeva all’auto, e finalmente iniziava a respirare.
    Percorrendo la strada verso il suo ufficio, il sorriso gli moriva sulle labbra, era un gesto artefatto da tempo, ormai se l’era dovuto costruire sul volto per nascondere le sue inquietudini, pensava che quel suo falso sorriso gli avesse invecchiato il volto, che il prezzo per reggere quell’espressione felice fossero le rughe che iniziavano a intaccare quella sua maschera. Era felicemente sposato, mai una discussione mai un litigio, ma avrebbero potuto litigare su cosa? Gli argomenti di discussione negli anni si erano sempre ridotti, si discuteva di quella sua corsa mattutina, del lavoro e degli avvenimenti mondani, tutto quello che comunque discuteva con i suo colleghi. Era stanco che ogni anno alcuni argomenti fossero stati all’indice, che il discutere di qualcosa di più serio fossero segni della stanchezza di una giornata pesante.
    Non riusciva a trovare soddisfazione neanche con i suoi colleghi, scherzava piacevolmente con loro eppure oltre ai classici argomenti delle conversazioni da bar non riusciva a discutere di altro, la vita familiare di ognuno si limitava a ciò che si faceva fuori di casa. Era separato da ognuno da una cappa che si lasciava penetrare, ma appena ci si avvicinava a qualcuno da riconoscerlo veramente essa ostruiva i movimenti.
    Lo sport non lo interessava più, per quanto un tempo avesse raggiunto i livelli agonisti, la gente non poteva credere che non gli interessasse più e lo sommergeva di dettagli inutili. Il suo fisico atletico e i suoi risultati in passato lo connotavano oltre ogni possibilità di cambiamento, aveva scelto la sua auto per preservare quell’immagine di uomo sportivo, eppure avrebbe preferito un’auto più confortevole.
    Le strade erano bloccate dal traffico come i polmoni bloccati dal muco aspettavano anche loro il potente colpo di tosse che le avrebbe liberate da quell’ingombro malefico.
    Il suo ufficio era luminoso, arredato con mobili moderni, lampade d’acciaio, l’interno rispecchiava l’esterno di pilastri di metallo e di vetri scuri riflettenti.
    La sua segretaria gli sorrideva, ma era un sorriso fiacco, gli occhi di un azzurro opaco sembravano essersi ossidati insieme al riso, forse anch’essa provava ciò che egli provava. Aveva avuto spesso la pulsione di affrontare l’argomento, ma un freno invisibile lo aveva sempre bloccato. La deontologia del rapporto capo-segretaria permetteva tutto anche il tradimento matrimoniale, ma non che si discutesse di qualcosa di serio, o nel caso peggiore di metafisico. Si sentiva un animale in gabbia, i cavi invisibili della regole sociali li aveva sempre avuto intorno, ma da un po’ di tempo avevano cominciato a stringersi e a ferirgli le carni.
    La città sotto di lui era un brulicante formicaio, una schiera di formiche si muoveva in maniera disorganizzata e pestandosi i piedi a vicenda, da quando invece di una regina si era scelto di affidare il potere a un elefantesco apparato burocratico. Si erano sviluppati una serie di tumori sociali che ostacolandosi a vicenda erano riusciti a far vivere l’organismo, anzi una volta divorate le ossa ne erano diventati loro l’apparato strutturale. Banche, assicurazioni, e un’altra schiera di roba simile continuavano a creare metastasi succhiando però con parsimonia i nutrimenti delle piccole cellule che gli brulicavano attorno, stupidamente contente del salasso. Anch’egli faceva parte del cancro, che era un ingranaggio di quell’enorme struttura si sentiva il tumore del tumore, non aveva il coraggio di svelarsi, di andare controcorrente per paura di essere distrutto.
    Il ritorno a casa fu faticoso, si ritrovò di nuovo nel traffico, si chiedeva se fosse sempre la stessa gente, se fosse un incontro costante e predeterminato. Non pensava che nessuno ci facesse caso, dopotutto quella era una guerra contro tutti, ogni macchina era una trincea, ogni uomo un nemico che bisognava cercare di superare per guadagnare una manciata di spazio.
    Si lasciava trasportare dall’ascensore, si dirigeva al suo appartamento, al suo angolo del formicaio e cercava di sforzarsi di fare il sorriso più convincente che poteva, di ricambiare l’abbraccio di sua moglie. Cercava con tutte le sue forze di gustarsi la cena che sua moglie gli preparava, di trovare interessanti i piccoli pettegolezzi di sua moglie, ma sentiva il richiamo del sonno ristoratore, il rumore impercettibile della sveglia gli martellava in testa.
    Amava la notte, la notte gettava un velo pietoso su tutto, confondeva le ombre e gli oggetti sbriciolava le sue certezze, gli permetteva di dubitare ancora del mondo circostante.
    Passava qualche minuto a pensare prima di cadere in preda del sonno, e poi senza accorgersene perdeva conoscenza. La notte sognava sempre la stessa cosa, un uomo che guardava con diffidenza il buio, che si alzava continuando a tastare il suo letto matrimoniale in cui evidentemente dormiva da solo e che abitava in un orrenda casa di campagna, che odiava specchiarsi in uno specchio che non osava spostare…

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