Se del fotogiornalismo abbiamo citato come padri fondatori Henri Cartier-Bresson e Robert Capa, ora non resta che citare Eugène Smith.
Meritevole quanto i due già nominati, ma al tempo stesso fermo dell’idea di esserne il Dio genitore di una prole di fotogiornalisti.
Nato nel 1918, nel Kansas, William Eugène Smith mostrò sin da subito il suo interesse verso la fotografia, dichiarando ai suoi genitore la sua volontà di documentare la realtà. Secondo il suo pensiero la fotografia sarebbe stata il miglior mezzo per documentare la vita nelle sue più piccole sfumature. Tutto questo condendolo di etica, moralità e significato, così da documentare la notizia senza bisogno di una didascalia.
Al fotogiornalista era possibile ogni cosa, dal ritocco in camera oscura al fotomontaggio, dalla sovrapposizione al ritaglio, purchè questo fosse conforme all’etica della foto, al messaggio, e quindi alla dichiarazione del fotografo.
“Il modo migliore per essere un buon giornalista è cercare di essere il miglior artista possibile”.
Smith quindi impose fin da subito il suo stile, potente e al tempo stesso pieno di sé, sfacciato al punto da considerare il suo lavoro superiore a quanto altro, se non alla verità. E’ proprio questa sua sfacciataggine però a donare alle sue opere un significato diretto e a parlare da sole.
Nei suoi lavori criticò i risvolti sociali del razzismo, dell’abuso, delle credenze popolari, dell’inquinamento e della guerra.
Partecipò alla seconda guerra mondiale, documentò la situazione nelle campagne americane, del razzismo nelle nursery di periferia e degli effetti nocivi degli scarichi di mercurio nel fiume giallo, in Cina.
Morì nel 1978, pieno della sua stessa ambizione, rincorrendo un progetto di critica politica, ritenuto in fine, irrealizzabile.
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