[1]Un topoc un po' Blues & Surreale - Pag 32
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Discussione: [1]Un topoc un po' Blues & Surreale

Cambio titolo
  1. #466
    Citazione phantommy Visualizza Messaggio
    no, intendo quel "topoc" che lo rende unico e osceno al contempo
    Ahhh. Una volta ho cambiato titolo, era "Un topoc un po' Blues e Sesso", solo che di Sesso non c'era niente (cavolo, noto che negli ultimi racconti invece ne ho messo tanto). Adesso non reputo necessario cambiare il topiz, ma topoc ci starebbe comunque, non lo sostituirei.

    Citazione blinkettaro Visualizza Messaggio
    ma dove trovi la pazienza di scrivere tutta questa roba?
    Ma pazienza in che senso? Ho scritto 3 cose in 6 mesi, magari scrivessi di più, invece...

    Citazione Jurambalco Visualizza Messaggio
    Ho letto grasso e l'ho trovato efficace, anche se mi è dispiaciuto per il venditore di piadine. Povero.
    Ho immaginato, come riscatto, che dopo la rissa fosse stato portato in ospedale assieme alla concetta finendo lui per trombarsela violentemente.
    ahahahahahaha questo sarebbe veramente un bel punto da cui partire, ma diventerebbe praticamente SOLO un racconto erotico. Non male, però... Concetta legata al letto dell'ospedale e Giovanni che la frusta urlandole insulti in dialetto calabrese, con una canottiera sporca di sudore. Poi entra un dottore erotomane e si sfrega contro Giovanni, disgustato, come fosse un gatto. Poi una infermiera completamente fatta di Valium che irrompe vomitando ed obbligando Concetta a leccare il vomito, mentre le fa una pera di Valium, molto più efficace del popper...
    Quanta aberrazione, bontà dell'essere umano!

    Citazione MIGLIOMAN Visualizza Messaggio
    Bellissimo, non oso dirti cosa penso, perché non ne ho le capacità.

    Molto bello e divertente soprattutto.

    p.s.
    Antonio, capelli rossi e denti gialli, lo conosco davvero!
    Non fatico a crederci, in quanto Antonio è il nome che si addice a una persona:
    • Smilza.
    • Sporca.
    • Coi capelli rossi.
    • Coi denti gialli.
    • Con le lenticchie.
    • Con la pelle un po' ruvida... quella pelle dei chiarissimi di pelle che fa uno schifo sconcertante.
    • Non molto colto.
    La pazzia dilagherà... un giorno...

  2. #467
    Tema: il sacrestano della mia università
    Cara maestra, ti ringrazio per l’opportunità concessami di descrivere una figura davvero molto importante nella mia vita universitaria, come in quella di tutti i Cattolici Puri che di mattina ascoltano Radio Maria dall’Ipod, di pomeriggio studiano la dottrina dei Sacramenti e di sera trattengono corrispondenza con le suore Orsoline.
    Ebbene, il sacrestano dell’università è una persona fenomenale. Si chiama Andrea e ha un po’ di anni, ma non so quanti, quindi potevo omettere questo passo.
    Io lo conobbi – ma non personalmente, in quanto la sua persona emana un’aura di santità che lo rende inavvicinabile dalla gente impura come me, povero peccatore – durante le lezioni di biblioteconomia. Egli era solito intervenire descrivendo alcuni suoi memorabili ritrovamenti, millantando fantastiche avventure negli impervi banchi della chiesa parrocchiale, pontificando giudizi personali sui bibliotecari della “sua” biblioteca e delineando la sua mirabile cultura.
    Egli porta solitamente un maglioncino e delle brache marroni, con una borsa da missionario e un ombrello nero anche quando non piove. Soprattutto quando non piove. Le sue movenze sono davvero strane, quasi spastiche, ma aggraziate dalla carica divina che sprigiona quando sentenzia giudizi ampiamente opinabili.
    Oltre che a biblioteconomia, lo ritrovai alle lezioni di Storia della Chiesa. Egli era visibilmente eccitato, un po’ come quando un artista deve eseguire il suo primo dipinto di nudo ed è intenzionato a fare un buonissimo dipinto per cercare di portarsi a letto la modella: si dondolava sulla sedia, alzava il dito indice ed interveniva dicendo amenità. Era proprio un ganzo; un gonzo. Il meglio di sé lo diede quando il professore disse che, qualora si verificasse una penuria di sacerdoti, anche i laici potevano amministrare i sacramenti: lui balzò in piedi sfregandosi le mani, dicendo che avrebbero potuto anche impartire l’estrema unzione. I suoi occhi brillavano. Smisi di seguire Storia della Chiesa, ripiegando su Filologia Medievale ed Umanista.
    Non lo vedevo soltanto a lezione, ma anche in mensa, cioè al banchetto eucaristico del venerdì santo, dove lui era solito ammonire chi osava mangiare carne. Io abbassavo gli occhi sul mio piatto di pasta al ragù e mi sentivo davvero un verme. Però la pasta al ragù era buona.
    Ricordo che la prima volta che andai in mensa, all’inizio di novembre, lui era prima di me ed iniziò a lamentarsi con la signora Maria, dicendo che lui solo si era recato alla messa dei Santi, nonostante fosse di Bergamo. La signora Maria gli disse che era un bravo ragazzo ma lui, indomito, non soddisfatto del complimento ricevuto e del riconoscimento imperituro di Santo patrono dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Gesù, iniziò a dire che era inammissibile tutto questo, ma Maria rispose che non era detto che chi non andava a messa non potesse essere, nel contempo, anche un bravo ragazzo. Punto sul vivo, egli bofonchiò un lamento e poi iniziò a parlare del fatto che i paramenti a Bergamo avevano un colore diverso; a Brescia erano sbagliati. Maria lo prese per mano e lo portò a mangiare ed io ringraziai il cielo, dato che mi sentivo davvero un verme per non essermi recato alla messa dei Santi promossa dall’Università.
    Un altro aneddoto che mi balza in mente avvenne quando mi recai in visita alla biblioteca di Rezzato con il corso di biblioteconomia. Ci trovavamo in un bar, dove il professore ci offerse il caffè; il sacrestano si sedette al mio tavolo, occupato anche da alcune fighettine del primo anno ed iniziò a tediarle, pensando di essere davvero un portento. Santo cielo, lo era! Le sue asserzioni teologiche avrebbero fatto bagnare anche la più fredda ragazza del mondo, seppur morta da due giorni! Ad un certo punto estrasse dal suo borsone da missionario irlandese un faldone pieno di diapositive stampate benissimo: erano del corso di Storia dell’Arte Medievale. Mentre le guardavo i fianchi, udii la ragazza bionda: «Chissà quanto hai pagato per stampare tutte quelle slide!»; lui prese la palla al balzo e, sfoggiando un sorriso che avrebbe fatto invidia persino a Leonardo delle Tartarughe Ninja, disse con irruenza: «Ah, io niente, tanto paga la CHIESA!».
    Mi illuminai; no, non perché sognavo la ragazza a novanta, ma perché capii che lui era un protetto! Lui era un prescelto! Lui era stato mandato in missione per conto di Dio! Ora tutto mi era chiaro ed iniziai ad invidiarlo ed odiarlo nell’ombra della mia pochezza, nella tristezza della mia condizione di impuro peccatore, che desidera le donne anziché le estreme unzioni.
    Cara maestra dagli occhi misericordiosi, scusami l’interruzione del flusso narrativo, che peraltro sto sviluppando lentamente, tanto da sembrare una balena arenata che arranca sulla spiaggia deserta di un’isola popolata solo da scheletri di un mondo che fu, ma devo comunicarti che in questa seconda parte esporrò altre situazioni avvenute dopo la mia illuminazione. Devi sapere, bella e cara maestra, che io non sono di questo mondo, ma vengo da una galassia lontana e posso alterare la realtà. Quando ebbi la consapevolezza del ruolo di Redentore del sacrestano, non potendo certo prendere il suo posto per via della mia empietà e corruzione d’animo, iniziai a considerarmi il suo nemico, bramai la sua morte, la vendetta del Nero contro il Bianco. Se lui era il Puro e io non potevo diventarlo, non mi restava che diventare il Nemico e cercare di ucciderlo. Nelle mie casse mnemoniche sentivo gli echi di antiche favole, film, racconti, videogiochi; essi mi comunicavano come sarebbe andata a finire, ma io seguivo il mio destino fieramente. Iniziai quindi ad alterare la realtà per ostacolarlo. Maestra Onesta, abbi misericordia di me, fui costretto a farlo dalla mia Natura; l’anima mia cadde da un carro sgangherato, mentre Satiri e Ninfe bestemmiavano maledizioni. Nacqui sotto una brutta stella e porto con me la lordura del male, porto una croce più grande di me ed il mio cuore piange, arroventato da spini. Quanto vorrei essere redento!
    Di nuovo in mensa. Lo vidi mentre andava a molestare la gente ai tavoli e le cameriere; dato che erano mesi che non usavo i miei superpoteri, decisi di intervenire in modo non invasivo, non Infasil, insomma. Lo feci scivolare addosso a una cameriera, che rovesciò un piatto di risotto ai funghi in testa a una puttanella tirata, che iniziò ad agitarsi e, non potendo sopportare l’onta di avere i capelli impregnati di funghi, si tolse la vita gettandosi dalla finestra. Successivamente, venne triturata e il giorno dopo fornì la base per un ragù più buono del solito. Tuttavia, dai suoi sguardi, capii che sospettava qualcosa e rabbrividii; in un conflitto faccia a faccia, verrei annientato dalla potenza della Sacralità, del Bene, del Bianco, di Dio Padre Onnipotente.
    Una volta, mentre stava ammaliando una ragazza con dei racconti molto eccitanti a base di rosari e breviari, gli causai un virus intestinale, che la ragazza parve non gradire troppo. Si ritirò in bagno e perdette la lezione di biblioteconomia.
    Sempre riguardo a biblioteconomia, ricordo che una volta ammise di essere abbonato alla rivista Macchinisti e Ferrovieri, e ancora oggi mi chiedo se fosse un messaggio in codice, atto forse a smascherare lo spirito meschino che lo stava ostacolando. Io fui furbo e non dissi una parola. Quella rivista non esiste. Quando le lezioni finivano, egli rincorreva il professore come un cagnolino mentre fa le feste al padrone, dandogli davvero fastidio. Forse lo stava mettendo alla prova per vedere se era davvero lui il nemico. Mi ritirai in bagno, gemendo come un agnellino.
    Dovetti ricorrere a contromisure; iniziai a fingermi più solare e due volte lo salutai anche. Non puoi sapere quanto fu per me difficile, maestra; ero sospeso su una lama, un mio errore avrebbe mostrato la verità, un fulmine mi avrebbe divelto, avrei fatto la fine di Onan senza neppure godere.
    Fu così che, da un errore che poteva costarmi caro, riuscii a sviare i suoi sospetti, anche se non fui lesto ad ammazzarlo. Mi spiego meglio: dopo l’ennesima lezione di biblioteconomia, che lui segue anche se non dovrebbe, probabilmente solo per descrivere le sue peripezie culturali, ci recammo a Storia della Chiesa, dove fu più fastidioso del solito, chiedendo addirittura quali santi fossero descritti nel rito ambrosiano. Ad un certo punto lui uscì dall’aula e non vi fece ritorno. Finita la lezione, mi si avvicinò e mi chiese: «Tu eri a biblioteconomia?». Come dovevo intendere questo interrogativo? A lezione eravamo in sei, impossibile che non mi avesse notato, anche perché fui autore di due interventi che mi procurarono fischi e derisioni. La sua era una domanda retorica. Risposi affermativamente. Allora mi chiese: «Hai visto se ho lasciato dentro l’ombrello?». Trasalii. In realtà l’ombrello fu da me controllato mentalmente e proprio in quel momento fluttuava dietro di lui, pronto ad entrargli in culo ed uscirgli dalla bocca. Sudando freddo, ebbi la consapevolezza che mi avrebbe fregato, quindi feci volare l’ombrello nella fica di una di lettere e l’ombrello s’aperse pure, liberando il suo carico piacevole di dolore e delirio. Gli dissi: «No, in realtà non ci ho fatto caso, però puoi sempre entrare a controllare». Lui rispose: «No, no, stanno facendo lezione, ho paura di interrompere». Capii che mi aveva messo alla prova; in realtà ad un protetto come lui, non interessa interrompere una lezione, tanto più che interrompe spesso le lezioni di Storia della Chiesa condannando al rogo gli omosessuali o quelli che ascoltano musica rock. Tuttavia, dopo la mia risposta, vedendo che non gli accadde niente, fu sicuro che io non fossi il nemico. Avevo tregua.
    Alcune volte le mie opere mefistofeliche fallirono, forse perché Dio aiuta sempre i più virtuosi e la mia unica virtù è quella di non averne. Mi dissero che egli era solito recarsi, durante le pause delle lezioni, nella cappella dell’Università. Rintanatosi, amava suonare l’organo e ballare mentre lo faceva. Io feci un patto con alcuni diavoli delle gerarchie minori che, in forma di bambini, l’avrebbero trucidato con candelabri e arnesi religiosi. La colpa sarebbe poi ricaduta sul fantasma di padre Gemelli, o su padre Sagittario; per me era indifferente, avrebbero anche potuto incolpare il reverendissimo venerabilissimo magniloquente superfiko magnifico Rettore, che non mi sarebbe importato. Tuttavia, giocando sul suo terreno, i diavoli furono sconfitti dai colpi delle sue preghiere ed io, come padre Pio quando pregava Dio (ok, la smetto con le rime in -io) e combatteva contro il Diavolo, sentii il dolore della sconfitta e tornai a casa distrutto. Poi ascoltai un po’ di Blues e mi rimisi in sesto per l’indomani.
    Infatti, il giorno seguente, lo ritrovai in mensa, dove camminò trascinandosi fino ai bagni ed aperse la porta spiando dentro, con una mano girata in giù e con espressione poco intelligente. Mi ricordava gli animali antropomorfi dei cartoni animati o della letteratura, specialmente la visione che ebbi da bambino della Talpa del Vento tra i salici, oppure l’immagine del Topolino sballato del cartone di Alice nel paese delle Meraviglie, quello nella teiera.
    Questa volta diedi il meglio di me: creai mentalmente un ologramma (la mia specialità, mi ci vollero 410 anni per apprendere questo potere). La figura rappresentata era quella di una ragazza bionda, completamente nuda, mestruata, nell’atto di rovesciarsi in testa un cappello pieno della sua calda orina, visibilmente divertita e con ematomi sulle gambe. La ciliegina sulla torta fu il rivolo di sangue scuro che colava e lasciava un solco sul suo interno coscia, rappresentante probabilmente la desolazione cupa di un’umanità sempre più allo sbando, traviata da falsi idoli e ferita dalle proprie malsane abitudini; o forse era solo un’immagine tanto bella quanto disturbante.
    Una ragazza, che stava mangiando le tagliatelle al ragù (fatto con la carne di un negro trucidato da una suora ottantenne che l’aveva accolto in casa sua e l’aveva offerto a dio Baal), iniziò a vomitare dal naso, mentre Andrea, con la sua flemma di incorrotto, estrasse un crocifisso appuntito ed iniziò ad attaccare l’ologramma, facendolo svanire. Avevo perso, baby.
    Maestra, chiudo questo mio tema aprendo il mio cuore, si noti peraltro la figura retorica. Sono combattuto dai rimorsi, conscio di cercare di distruggere un essere Puro in nome della mia impurità. Una scure pende sopra la mia testa, piango ma non posso comprare il tuo papavero del Giorno del Veterano; muor Giove, ma l’inno del Poeta resta. Va bene, la smetterò di fare citazioni e parlerò onestamente. Io ho perso, maestra imperitura, come sempre; ma forse la vittoria sarebbe l’ultima mia sconfitta.

    I nomi e i personaggi di questo racconto, oltre ai fatti citati, sono assolutamente reali e non immaginari.
    La pazzia dilagherà... un giorno...

  3. #468
    Surrealismo esasperato; Long gone
    Il buio e gli spettri grigi di alberi scorrono agli angoli della mia visuale. Senza meta, mantengo l’acceleratore costante e continuo a pensare, ascoltando queste note sepolcrali. Scorre lento e deciso il tempo, come questa macchina: quando arriverò a destinazione, avrò guidato per molte ore, eppure mi sembrerà strano di essere arrivato a destinazione in così poco tempo.
    Può risultare strana una canzone in cui il ritornello è appena musicato, al contrario delle strofe. Per me è geniale. La quotidianità è qualcosa che non resta, qualcosa che scorre come l’acqua sul catrame nero delle strade quando piove: viene portata giù, sempre più giù, si perde ma si ritrova in fondo. Le altre cose – e per altre cose intendo i sogni, le delusioni, le improvvise gioie, le pazzie – restano; certo, non per sempre, ma restano.
    E così proseguo, mentre l’ultima falce di luna mostra pudicamente la sua vergogna, la mia vergogna. Semicoperta dalle nubi, pare non mostrarsi: fa bene, lei può.
    Sulla stretta strada non incontro nessuno, come avviene sempre da queste parti. Solo gli alberi dal bosco. E il buio. Ci sono abituato al buio, dà conforto, non è freddo, è un tiepido buio in cui l’aria non si muove e non esiste altro all’infuori dell’universo all’interno. All’inferno.
    Come al solito la magia si ripete: ecco che ai margini della strada strane sagome prendono forma, sotto l’oscurità degli alberi, che come me tratterrebbero il buio eternamente. Dapprincipio fingo di non vederli, ma poi cedo alla nostalgia. I ricordi hanno ora preso una forma eterea e sono fiocamente illuminati dalle emozioni che hanno suscitato.
    E così, come sempre, li vedo, li percepisco. Non ha importanza se siano belli o brutti, dato che sono accomunati dalla medesima anima. Però mi soffermo specialmente sul ricordo di quella ragazza, quella con cui litigavo tutte le notti ed avevo ragione, ma la vedevo l’indomani ed avevo sempre torto. Quanta rabbia, quanto amore, quanta sconfitta. Disonorevole. Perché alla fine non esiste una sconfitta onorevole; in realtà non esiste nemmeno una vittoria onorevole. È crudele.
    Non capiva, non capivo, sbagliavo, sbagliava. Insomma, disperazione senza rivalsa. E tanta rabbia, ma tanto inutile spreco di tempo senza riuscire a dire ciò che pensavo.
    Quanto orgoglio quando non ce n’era bisogno, quanta umiliazione quando invece sarebbe servito. Ho iniziato a pensare che una maledizione gravasse su me come una nube radioattiva. Non era così. Forse sì.
    Guardo fuori dal cruscotto, metto fuori una mano dal finestrino. L’aria è così umida, stasera; sembra quasi che stia piangendo. O forse è la luna. Non c’è vento, non c’è nemmeno caldo. Insomma, sì, penso sia infine un piccolo angolo di buio, popolato da sagome trasparenti, lievemente illuminate, che si alternato in continuazione ma conducono a lei. Questo non lo accetto, non dovrebbe esserci una gerarchia nei ricordi, specialmente se non è legata ad alcuna meritocrazia.
    Il protagonista di quella canzone è destinato (e maledetto) a rimanere solo, osservando gli altri dalla finestra. Mi ci riconosco. Piano piano, mi farò anche io sempre più trasparente, penserò sempre più lentamente fino a fermarmi; sbiadirò e svanirò. Rinascerò ai margini della strada come un albero grigio sul quale si riflette una malata luce lunare.
    Trattenendo avidamente il buio sotto i miei rami secchi e spogli, cercherò invano di bloccare la silenziosa notte e perdermi nell’oblio. Senza alcuna sagoma trasparente vicino; sperando di non rivedere mai più l’alba.
    La pazzia dilagherà... un giorno...

  4. #469
    Chi sono i miseri?
    Passeggiare per i vicoli malfamati di Brescia mi rende sempre tranquillo e sereno: mi sento perfettamente a mio agio. Cammino per i vicoli stretti della contrada del Carmine, guardo in faccia i miserabili appoggiati ai muri ad aspettare una fortuna che non arriverà mai. Vengo fermato dai tossici che mi chiedono monetine, ma non ne ho; ed anche se le ho non gliene do. Non dovrebbero nemmeno chiedermele, io sono come loro: per farglielo capire, mi copro la testa con il cappuccio della felpa, come un tossico anonimo. Uno spreco di umanità. La mia valigetta, anche se brutta, stona con la miseria che c’è attorno e che mi porto addosso.
    Talvolta scorgo dei trans; in genere fanno davvero schifo, non assomigliano assolutamente a donne, nemmeno a uomini truccati. Le loro facce sono gonfiate, probabilmente da iniezioni di cortisone, il loro trucco è grottesco. Mi sembrano degli australopitechi truccati, oppure i troll del Signore degli anelli. Spesso sono sfregiati. Povera e triste gente che vive a stretto contatto con l’aberrazione.
    Vedo molti extracomunitari, alcune facce davvero poco raccomandabili che mi guardano con occhi che non tradiscono alcuna emozione: non sono nemico, non sono amico, sono solo come loro, né più né meno.
    In una traversa noto spesso una prostituta veramente orrenda. La sua faccia è sfregiata, pare sia stata ustionata, o forse è il residuo di qualche intervento chirurgico mal riuscito. In realtà non sono sicuro che sia donna, forse è trans; per educazione, non gliel’ho mai chiesto. Non dev’essere bello per una donna essere considerata trans. Comunque non è importante cosa sia, nemmeno come sia: ciò che importa è la funesta croce che si trascina dietro. Le prime volte, quando le passavo vicino, cercavo di non guardarla. Non so perché, forse per non intralciarle il lavoro, per non farle credere che fossi un cliente; forse nemmeno per questo, in effetti non credo ci fosse un motivo, quindi rettifico. Una volta l’ho sentita cantare con voce veramente soave, quasi da ragazzina immacolata. Un’altra volta l’ho vista urlare insulti a tre tossici che la stavano provocando. Uno di quei tossici mi sfiorò, mentre se ne andava, e lo sentii bofonchiare «Ma chi ti vuole, puttanella». Da parte mia, ho iniziato a salutarla. Passo spesso di lì per arrivare a Porta Trento, dove prendo la corriera; talvolta anche la mattina, quando scendo. Di mattina non la vedo mai, di pomeriggio c’è sempre. Non ho mai capito se è sempre di sotto perché ha pochi clienti o perché gestisce qualcosa, dato che è abbastanza vecchia: più che anagraficamente, mi sembra vecchia nell’animo.
    Dicevo, mi trovo a mio agio in quel mondo aberrante e misero. Molti lo deprecano o, peggio, fingono che non esista. Magari ne trattano in qualche assemblea o comizio del cazzo, dopo aver mangiato qualche pasticcino, con il culo bianco bene appoggiato alle sedie comode comode. Tirare avanti senza lasciarsi turbare da ciò che fa paura; questo è lo stile di vita dei benpensanti. Vengo io stesso giudicato male per queste mie malsane abitudini. Sorrido. Conigli amorfi, chiusi nelle gabbie delle loro futili ed indecise convinzioni.
    Non mi sento a mio agio nel mondo ipocrita che mi circonda quasi sempre, quindi. Insomma, ipocrita è un eufemismo: in realtà il male peggiore dell’essere umano è la mancanza di onore. Sono convinto di questo, per questo la parola “ipocrita” è un complimento, rispetto a ciò che sono veramente.
    Essere senza onore significa non rispettare il prossimo (e infatti il mondo oscuro della miseria è disprezzato), ma soprattutto non rispettare sé stessi. Quest’ultimo assunto è terribile. La dignità viene calpestata da persone che, per paradosso, credono di essere migliori degli altri, credono che sia loro dovuto, pensano di avere un qualche imprecisato merito. La cosa veramente triste è che in questi benpensanti del cazzo non c’è una vera e propria ipocrisia: o meglio, la loro ipocrisia non è soggettiva. In pratica, la loro coscienza è pulita. Non si rendono conto di quanto una sudicia puttana sia un angelo in confronto ai loro principi sballati. Non si rendono conto di quanto mi rattristiscono, di quanto soffro vedendoli.
    E si arriva all’assurdo, sia chiaro, quando dico che non soffro vedendo trans orrendi e volgari, truccati come pagliacci psicolabili, tossici sdentati che biascicano bestemmie al metadone o fondi di galera che portano tatuate ferite nel corpo e nell’anima. No, non soffro vedendo loro, vittime dignitose di questo bieco mondo infame. Soffro vedendo gli altri, i lindi bastardi, i figli di puttana pieni di tracotanza. Loro, solo loro, rendono il mondo aberrante. Non lo capiranno mai, continueranno ad avere schifo delle viuzze del Carmine, considerando quei reietti come subumani. Penseranno (sacrilegio!) di essere migliori.
    Infami, vigliacchi, indegni. Siete voi le puttane, siete voi i tossici delinquenti.
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  5. #470
    SPURTIGLIONE L'avatar di Edivad Snake
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  6. #471
    Karl Friedrich Hieronymus
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    "Vengono fuori gli animali piu' strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l'altro verra' un altro diluvio universale e ripulira' le strade una volta per sempre."

  7. #472
    cagliostra
    Ospite
    Non è la prima volta che sento parlare degli slums bresciani.

  8. #473
    Citazione cagliostra Visualizza Messaggio
    Non è la prima volta che sento parlare degli slums bresciani.
    Ci sono aree un po' delicate: stazione e vicinanze, Carmine e Castello. Ma il punto, cioè ciò che volevo far capire, è che non sono certo peggio del centro o dei quartieri benestanti. Insomma, la miseria sta più lì.
    Considerando la mia esperienza, i disagi mi sono stati provocati dai culibianchi e dalla loro ipocrisia, non dai trans orrendi (dio li benedica) o dai tossici (dio li abbia in gloria). Per questo mi sento molto più a mio agio in quei vicoli di merda, con la puzza dei kebab e piscio.


    Per il resto, la storia era dedicata a Peppelwood e Jake.
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  9. #474
    Il bibliotecario pazzo
    I folli si portano la croce della loro diversità. Sono derisi o, peggio, esiliati dalla società. Conosco un caso inverso: un folle che ha un posto di lavoro di tutto rispetto ed intimorisce le persone.
    Egli è il bibliotecario pazzo, una persona con profondi disturbi psichici. Quando lo vidi per la prima volta, era stato messo in guardia; mi avevano detto che era un pazzo inoffensivo e che bisognava dargli ragione. Non aveva mai fatto del male a nessuno, ma una volta aveva cacciato dalla biblioteca uno studente disciplinato, senza un motivo, urlandogli improperi davanti a tutti.
    Dicevo, quando lo vidi per la prima volta, il docente ci stava spiegando la storia della biblioteca; il pazzo bibliotecario passava su e giù continuamente guardandoci con espressione di odio, come un cane quando il padrone porta in cortile qualche personaggio non amato. Quando invece parlava con il docente, assumeva un tono di estrema cortesia che pareva finto e derisorio: «Le devo portare anche questo libro?», con un sorriso derisorio. In seguito passò più volte con un carretto, facendo attenzione a fare più rumore possibile.
    Qualche tempo dopo mi trovavo in biblioteca a fare alcuni lavori di descrizione. Il bibliotecario rimaneva nel suo cantuccio a girarsi su una sedia che faceva un rumore bestiale. Ogni tanto gli telefonava sua madre, una anziana sclerotica. «Sì, mamma, sono qua a lavoro, dopo vengo a mangiare. Ciao mamma».
    Una ragazza del mio corso mi disse che si era trovata sola con lui; le scrisse una poesia romantica e lei scappò spaventata.
    Una volta vidi con i miei occhi il bibliotecario scrivere una poesia e porgere il foglio, quasi fosse una pergamena antica di incommensurabile valore, ad un suo collega; egli lesse la poesia e gli disse che era bella. Il bibliotecario si rallegrò e decise di portare il foglio “di sopra”. Io immaginai che nel sottotetto della biblioteca ci fosse uno scrigno con dentro tutti questi foglietti stropicciati, pregni di estemporanee visioni partorite dalla sua mente bacata.
    Quando tornai in biblioteca era passato circa un anno. Egli non mi riconobbe, io mi palesai e lui finse di riconoscermi. Cinque minuti dopo mi disse ciò che io gli avevo detto prima, fingendo che non gliel’avessi detto, cercando di farmi credere che lui sapeva chi fossi.
    Ad un tratto arrivò un anziano signore, che assomigliava ad un pupazzo. Iniziarono una discussione folle. Il vecchio disse che aveva aiutato a sistemare dei bagagli di alcune suore. Come ricompensa, esse avevano pregato per lui. Tornato a casa, se l’era trovata svaligiata, ma era felice del fatto che i ladri non gli avessero lordato il letto, cagandogli sopra. Questo atto, per la mente del vecchio e del bibliotecario pazzo, era assimilabile alla deflorazione della propria figlia.
    Mi sovvenne la seguente visione: il bibliotecario pazzo che si addormenta tra i cartoni umidi della sua stanza, al freddo. Nessuno lo veglia e la notte per lui diventa sempre più buia e dura sempre più a lungo. Nel dormiveglia si ricorda di muovere la mano, o sarebbe congelato. Soffre, perché i suoi muscoli sono intorpiditi.
    Ad ogni modo, quando il vecchio con la faccia da pupazzo se ne andò, lui mi chiese «Lei produce qualcosa? Dipinge, suona, scrive?». Io dapprima dissi di no, poi affermai che scrivevo qualcosa senza pretese letterarie e gli dissi che avevo scritto una poesia essenziale intitolata Disperazione. Il bibliotecario mi disse: «Perché, lei sa cos’è la disperazione? Soffre di turbe psichiche?». Riuscii a non ridergli in faccia. Sia chiaro: io soffro di turbe psichiche, ma la sua domanda mi fece morire dalle risate. Avrei dovuto rispondergli «Chi non soffre di turbe psichiche, oggigiorno?», ma sarei sembrato strafottente, sapendo che quell’uomo prendeva medicinali contro la sua malattia mentale. Comunque la mia poesia gli piacque e mi disse che lui era stato pubblicato ed i suoi libri erano in biblioteca. Quando lo abbandonai, rimase solo nello stanzino, attorniato da vecchi libri polverosi.
    «I libri parlano», stava sussurrando. «Parlano».
    La pazzia dilagherà... un giorno...

  10. #475
    L’automobilista giustiziere (parte 1)
    Questo racconto non tratterà di un eroe, di un personaggio simpatico, di un oppresso che si rimbocca le maniche e ottiene ciò per cui ha lottato. Certo, è bello e lodevole dipingere uno stilizzato sorriso sul mondo, regala evasione dal quotidiano, ma è una menzogna.
    Svoks era un operaio sottopagato e no, non era un esempio di virtù e non aveva particolari qualità positive. Non era neanche un individuo malvagio, ma diciamo che non s’innalzava dalla mediocrità comune. Oltre ad essere un operaio sottopagato era anche un collazionatore di francobolli e un accanito videogiocatore; come potete vedere, nemmeno i suoi passatempi erano particolarmente interessanti. Aveva ventuno anni ed abitava in un monolocale, da solo. Usciva di casa raramente, ed anche se lo faceva, passava il suo tempo al supermercato a confrontare le varie marche di prodotti cercando di acquistare la più conveniente, oppure faceva passeggiate non molto edificanti, naturalmente da solo. Magari avrebbe potuto trovare un po’ di compagnia, ma non ne cercava, non se ne curava. Sostanzialmente era un misantropo; sì, credo che la definizione calzi. Sarebbe ingeneroso dire che provava odio per le persone, non era certo così; provava piuttosto indifferenza, talvolta del leggero fastidio.
    Il resto del tempo che trascorreva fuori di casa, lo passava a produrre reddito a bassa retribuzione e sulla strada, guidando la sua auto nel tragitto per andare a lavoro o tornare a casa. Abitando a Lumezzane e lavorando a Ospitaletto, precisamente alla Sifral, doveva farsi una buona oretta all’andata e al ritorno. La cosa era anche accettabile, se non fosse che gran parte del tempo lo passava in coda, o comunque su strade particolarmente trafficate.
    Veniamo quindi al nocciolo della questione. Egli odiava con tutto il cuore gli automobilisti inetti ed arroganti, cioè quelli che sorpassavano in luoghi dove era vietato o facevano manovre illogiche. Ma la stupidità era anche tollerabile. In realtà ciò che odiava veramente era l’arroganza tipica degli automobilisti che lo superavano in modo increscioso, che gli imponevano di decelerare o spostarsi. Sì, odiava a morte questo comportamento; diciamo che le ingiustizie che pativa al lavoro le scaricava su quegli sprovveduti automobilisti. Ma cosa poteva fare, se non suonare il clacson, fare i fari o talvolta gesticolare? Null’altro, solo prendere atto di essere stato superato da un cretino che aveva rischiato un frontale o da un deficiente che si era inserito in mezzo alla fila facendolo quasi inchiodare.
    Questi atteggiamenti erano tipici di ogni categoria di automobilisti, ma quattro sottocategorie erano particolarmente pericolose ed antipatiche. La prima era quella dei golfisti e A3isti, in genere giovanotti che dovevano dimostrare di avere una marcia in più degli altri (come se un’auto veloce desse un certo prestigio; ma d’altronde si vive in un mondo dove chi si veste di marca e cura il suo aspetto vale di più ed è più uomo degli altri, manco si trattasse di avere l’uccello lungo). La seconda, ancor peggiore, era quella dei Ministi e Cinquecentisti, in genere dei figli di papà che – come i primi – dovevano dimostrare la loro potenza, ma che – a differenza dei primi – erano totalmente inadeguati al volante: d’altronde non è sinonimo di particolare sagacia acquistare una Mini o una Cinquecento, quando allo stesso prezzo ci sono macchine nettamente superiori. La terza categoria era quella dei possessori di auto di lusso; essendo persone abituate a comandare o comunque a far parte del ceto dei privilegiati, credevano di avere un codice della strada diverso dagli altri, che permetteva loro ogni tipo di manovra (e riassumiamo così, dato che quello di Zelig dovrebbe aver descritto questa particolare categoria ed è quindi inutile farne un profilo psicologico). La quarta categoria era la più odiata da Svoks; motorizzata nel medesimo modo della precedente, questa categoria differiva per quanto concerne il guidatore: non stiamo parlando di industriali, figli di papà particolarmente agiati, calciatori o vip, banchieri o dirigenti, ma dalle loro mogli.
    Sì, le mogli che utilizzavano auto di lusso dei mariti o comprate dai mariti. Svoks le detestava. Non si trattava di misoginia (dacché era misantropo, quindi non faceva distinzione tra i sessi), nemmeno del classico dente avvelenato del respinto o umiliato (dacché aveva maturato una certa indifferenza nei confronti delle donne e viveva in una condizione di tranquilla atarassia), ma di senso della giustizia. I loro mariti, uomini che avevano fatto carriera in modo brillante o meschino – o brillantemente meschino – si comportavano coerentemente in base alla loro percezione della realtà. Erano quindi legittimati, dal loro punto di vista, a comportarsi in questo modo. Ma le mogli no, specialmente quando erano trentenni ossigenate e particolarmente belle o affabulatrici che guidavano il Suv o il Mercedes ostentando una particolare arroganza, un’illegittima arroganza. Un’odiosa arroganza. Come poteva, quel povero operaio misantropo e indifferente alla grazia femminile, come poteva, quel ragazzo frustrato, tollerare simile comportamento. Non riusciva a capirlo, non poteva accettarlo.


    Fine prima parte. Vi giuro che ci sarà la seconda e la terza. Poi basta.
    Non dite che è tanto perché è scorrevolissimo. In 2 o 3 giorni finirò.
    La pazzia dilagherà... un giorno...

  11. #476
    Il bibliotecario era il signor Coriandoli?

  12. #477
    hitfreezy
    Ospite
    Citazione Lord Skop's Visualizza Messaggio
    d’altronde non è sinonimo di particolare sagacia acquistare una Mini o una Cinquecento, quando allo stesso prezzo ci sono macchine nettamente superiori.

  13. #478
    L’automobilista giustiziere (parte 2)
    11 gennaio 2007.
    Svoks stava tornando a casa da lavoro; erano le sei e tredici minuti e c’era una lunga coda, come al solito, forse anche meno del solito. Guidava paziente, bofonchiando. Alle sei e quarantuno minuti si immetteva sulla strada che portava a Lumezzane, nella località denominata Crocevia dagli automobilisti. Dopo aver superato l’altro semaforo – quello che permetteva di entrare in Valle di Sarezzo – si trovava più o meno all’altezza dello Snack Bar Manhattan quando notò allo specchietto un Suv (precisamente un Q7 dell’Audi) farsi sotto aggressivo. Alla guida c’era una bionda di circa trent’anni, forse anche un po’ di più; capelli tinti, pelle lampadata e ben lustrata, inutili occhiali neri (non c’era certo il sole alle 16:41 dell’undici gennaio, capirete anche voi).
    Beh, ma come poteva anche solo pensare di superarlo? Davanti c’erano macchine, fermo sulla destra poco più avanti c’era un furgone della Bartolini ed il pakistano autista era sceso e si grattava la testa analizzando una cartina. Insomma, non ci sarebbero certo stati spazi per il sorpasso.
    Il ragazzo si dovette ricredere quando la tizia provò un avventato e futile sorpasso; dico futile perché la strada era piena di automobili in entrambe le direzioni. Svoks accelerò, in barba alla distanza di sicurezza, e si avvicinò alla macchina che lo precedeva, nel tentativo di non lasciare spazio disponibile. Ma la bionda, per nulla intimorita, forse anche infastidita da tanto ardire (come poteva un umile plebeo essere così sfrontato?), stringeva sempre più a destra, lenta ma risoluta.
    Cosa poteva fare Svoks, che vi starà certamente simpatico per via degli artifizi descrittivi con cui ho presentato i suoi protagonisti, ma in realtà era mediocre, rileggetevi la descrizione iniziale se non ricordate. Dicevo, cosa poteva fare? Niente. La sua auto, una Peugeot 206 comprata nel 2005 a 14000 € e che stava pagando a rate, era il più grande investimento della vita dopo il monolocale. Non poteva certo rovinarla. Schiumando rabbia decelerò, ma non prima di aver suonato nervosamente il clacson per tre volte.
    Aveva dovuto cedere, come spesso accadeva. Pensate invece a come si inviperì quando, dopo qualche secondo, la tizia gli fece il gesto internazionale del “che cazzo vuoi?”. Incredulo ma non più di tanto, egli cambiò con i due gesti internazionali del “ma guarda te” e del “sei matta”. La sua rabbia divenne quasi furore quando la tizia fece un gesto impossibile da tradurre a parole, ma facile da rappresentare concettualmente: significava pressappoco “questo è il tuo ruolo, tu devi stare dietro e non hai possibilità di lamentarti: non intendo dire che le tue lamentele siano vane, esse sono semplicemente insubordinate, fuori luogo, VIETATE”.
    Svoks mantenne la calma, non perché virtuoso o paziente, ma perché nella sua mediocrità era abbastanza saggio da non lasciarsi andare a istinti autodistruttivi. Intendo ‘autodistruttivi’ nel doppio senso di distruggere auto e distruggere la propria auto. Non poteva permettersi questo danno economico, valutabile anche dal punto di vista assicurativo, dacché era neopatentato.
    Dico il vero quando sostengo che mantenne la calma, ma nel mentre una voce mentale continuava a ripetere nervosamente “speronamento-speronamento-speronamento”. Passò quattro miniti e l’Audi Q7 fece altri sorpassi azzardati, oltrepassando linee continue agli incroci e addirittura andando sulle corsie di svolta.
    Svoks fece i soliti venti euro di benzina super senza piombo, ma non V-Power, e tornò a casa dove consumò una cena a base di pizza scaldata nel microonde e guardò in televisione qualche inutile talk show politico. Poi videogiocò a Fifa 2006 dove perdette il campionato all’ultima giornata; offeso da questo, dopo aver bestemmiato per qualche minuto, ricaricò il gioco e ripeté l’ultima partita vincendola, compiacendosi della propria astuzia. Ma nel mentre una strana e perversa idea lo pervadeva, un progetto stava nascendo pian piano. Andò a dormire tardi, con la speranza di risvegliarsi l’indomani in un’altra vita. Nel dormiveglia, però, questo progetto iniziò a cementarsi e durante la notte ebbe un sogno rivelatore: gli apparve Gesù con la tuta di Gilles Villeneuve, o forse era proprio Gilles Villeneuve. Gli disse «Oggi la tua sofferenza è arrivata a me, e sono qui per svelarti il tuo destino: tu diventerai il Giustiziere degli automobilisti indisciplinati e scorretti. Li punirai e sarai impunito, perché io veglierò sul mezzo che guiderai».
    «Ma come potrò fare? La mia auto non è molto resistente, in più sono in quindicesima e l’assicurazione mi scala di due categorie per ogni incidente, o forse anche di più», rispose Svoks.
    «Ho pensato a tutto io, sta attento che ti rivelo ciò che ho in mente», affermò convinto.
    Il Gesù-Gilles Villeneuve onirico si guardò attorno con complicità, si sporse verso Svoks e gli rivelò il piano. Io, che pure c’ero, non potei sentire le loro parole: credetemi, è già difficile capire ciò che dicono le persone in sogno, figuratevi quando fanno di tutto per non farsi sentire!
    La pazzia dilagherà... un giorno...

  14. #479
    SPURTIGLIONE L'avatar di Edivad Snake
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    Le donne ormai sono abituate a fare cose che non le competono, e gli uomini comprano macchine che non gli competono.E' un mondo di incompetenti e macchine come i Suv lo dimostrano.
    Ma mi chiedo che gesto"indescrivibile a parole" abbia fatto la donna per far capire a Svoks che era un subordinato.
    Comunque mi aspetto il riscatto sociale nei prossimi episodi.

  15. #480
    L’automobilista giustiziere (parte 3)
    13 gennaio 2007.
    Erano passati due giorni dal sogno in cui Gilles-Gesù-Villeneuve aveva rivelato a Svoks il piano che l’avrebbe reso Giustiziere degli automobilisti scorretti. Il ragazzo stava ricordando quell’esperienza onirica; ora posso quindi darvi tutti i dettagli, ma non prima di aver chiarito alcune inezie. Svoks si trovava in un’autodemolizione, in tarda serata; era riuscito ad entrarvi di soppiatto. Vi chiederete perché ha aspettato due giorni ad agire: ebbene, non aveva agito il giorno prima in quanto doveva recarsi a lavoro ed era talmente alienato che nemmeno Gilles Villeneuve-Gesù era riuscito a convincerlo; il tredici gennaio era invece un sabato, e fortunatamente non lavorava.
    Svoks si stava dirigendo verso una specie di magazzino all’interno dell’autodemolizione. Il suo cuore era trepidante: Gesù Villeneuve gli aveva promesso un mezzo. Ed ecco!, là nell’oscurità qualcosa scintillava, una figura metallica nera: era proprio una Ford Escort!
    Dovete sapere che la prima auto del ragazzo fu una Ford Escort immatricolata nel 1989. Una macchina vecchio stile, non particolarmente veloce e potente, ma molto grezza e compatta: motore in ghisa, carrozzeria in lamiera, paraurti ben saldato. Nel 2006 dovette rottamarla per via di alcune leggi poco chiare, che imposero la distruzione di auto euro-zero e che vennero abrogate pochi mesi dopo, quando i più sprovveduti – tra cui il protagonista di questo racconto, che non brilla certo per intelligenza – si erano ormai privati dei loro mezzi. Svoks amava la sua prima auto, compagna di mille avventure. Anzi no, il realtà non l’amava poi molto (ricordiamoci la sua indifferenza di fondo), ma ogni tanto la sognava. Villeneuve Gesù gli promise una Escort, non quelle di Berlusconi; naturalmente non di trattava della sua antica Escort dal colore rosso, che era stata ormai smaltita e si era tramutata in tanti piccoli oggetti a causa della catena di riciclaggio, ma un nuovo modello dal colore nero. La particolarità di quest’auto consisteva nel paraurti in titanio, provvisto di arpioni adatti allo speronamento di auto anche di grossa taglia; inoltre il motore era truccato e rumoroso. Non aveva targa, non possedeva comodità interne tranne una radio a musicassette, non aveva nemmeno il tachimetro funzionante.
    Svoks la mise in moto, e sentì una nuova forza rivivere in lui; per tante cose aveva ragione Gesù Gilles, egli si sentiva un giustiziere. Iniziò a guidare e, magia!, più guidava più si sentiva libero, potente e felice. Certo, sempre animato da una furia vendicativa, ma sereno. Guidò tutta notte senza speronare nessuno, solo per il gusto di usare quell’auto magica, che non aveva bisogno di benzina. Svanì in lui fame e sonno, svanirono le angosce del lavoro e l’insoddisfazione imperante. Sul sedile Gilles Gesù gli aveva lasciato un flacone di metadone; quando Svoks mise in bocca la prima pasticca, la sua sensazione di cinismo si acuì e divenne totalmente e disperatamente insofferente. Incurante del buio, iniziò a guidare la Escort senza accendere i fari. Si sentiva un’ombra che fendeva la notte, che rombava come il tuono, che sfidava il vento. Una scheggia feroce, un meteorite redentore, una nuova vita, una nuova anima. Eccetera: aggiungete voi altre metafore poetiche, distruggete la noia e il tempo senza tremare, senza mai fermarvi!
    Questa non era una vittoria, non era un riscatto sociale; non era ciò che potrebbe sembrare a un occhio abituato al cinema o ai romanzi. Era piuttosto il trionfo della cupa sconfitta. Svoks era ormai perso, la macchina continuava ad andare, lui continuava a vivere come se il tempo si fosse fermato. Sulla strada buia c’era il suo fantasma, tutt’uno con la macchina. Una proiezione mentale, un sogno orrendo; inutili incombenze e convenzioni della vita, tutto lasciato alle spalle.
    La sagoma sempre più sfocata, il motore sempre meno rombante, sempre più lontano, senza una Luna a guardarlo, senza nuvole a piangere per lui. Come la vita, come la vita proseguiva diventando sempre più inesistente. Se ne andò con il vento.
    La pazzia dilagherà... un giorno...

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