Le Recensioni di GamesRadar - Pag 7
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Discussione: Le Recensioni di GamesRadar

Cambio titolo
  1. #91
    Kelvan
    Ospite
    Porcupine Tree – Voyage 34: The Complete Trip
    Progressive/Psychedelic Rock
    2000






    1. Voyage 34 - Phase 1
    2. Voyage 34 - Phase 2
    3. Voyage 34 - Phase 3/Astralasia Dreamstate
    4. Voyage 34 - Phase 4

    Non lasciatevi ingannare dalla data di pubblicazione: questo album nasce dall’unione dell’originale “Voyage 34”, singolo contente in una traccia unica di circa mezz’ora le tracce “Phase I” e “Phase II”, e di “Voyage 34: Remixes” contenente le ultime due tracce. Doveva originariamente far parte dell’album “Up The Downstairs” (in origine concepito come un doppio), ma l’idea venne poi scartata.
    L’intero lavoro è opera di Steven Wilson che l’ha ideato e realizzato da cima a fondo, tranne la traccia “Phase IV” in cui compare Richard Barbieri a supporto. La composizione è avvenuta fra il 1992 e il 1993.

    Per i fan che non conoscono i Porcupine Tree degli esordi (nella fattispecie, i Porcupine Tree degli esordi coincidono con Steven Wilson, in quanto era lui a suonare tutti gli strumenti e a ideare i pezzi) questo album risulterà sicuramente alieno, ma vale la pena di ascoltarlo con attenzione perché pone un mattone per capire l’evoluzione che la band ha subito dalla sua nascita fino ai giorni nostri, risultando fra l’altro un album molto godibile, seppur non di facilissimo ascolto.

    Una voce narrante descrive le tappe attraversate da Brian, ragazzo che ha assunto LSD. Sono presenti inoltre ulteriori voci appartenenti a consumatori di LSD che descrivono le loro esperienze. Già da questo dovrebbe essere intuibile il contenuto e il tenore del disco.

    Sono presenti 4 lunghissimi pezzi che si uniscono fra loro senza soluzione di continuità. C’è un grande uso di sintetizzatori, batteria elettronica e tappeti di tastiere. Le sonorità ricordano in maniera piuttosto marcata i Pink Floyd dei bei tempi (si notano anche citazioni per niente mascherate di “The Wall”). Lo stile è genuinamente psichedelico, ci sono intrecci sonori ipnotici, loop infiniti con echi profondissimi, assoli di chitarra liquidi e squisitamente “Gilmouriani”, fasi lente e sognanti inframmezzate da parti più veloci e ritmate, con la chitarra che si fa più aggressiva e poi torna a tacere, mentre l’ascoltatore viene rapito da suoni cristallini ed eterei, da ritmi ossessivi e da voci di un’altra dimensione.

    Nel complesso non è un album per tutti, per chi ama il genere sicuramente può risultare godibile. Per i fan della band è da ascoltare in quanto fa capire da dove vengono i Porcupine Tree che ora sono piuttosto lontani da questo tipo di sonorità.


  2. #92
    Kelvan
    Ospite
    Porcupine Tree – Up The Downstair
    Progressive/Psychedelic Rock
    1993






    1. What You Are Listening To
    2. Synesthesia
    3. Monuments Burn Into Moments
    4. Always Never
    5. Up The Downstair
    6. Not Beautiful Anymore
    7. Siren
    8. Small Fish
    9. Burning Sky
    10. Fadeaway

    Se escludiamo il primo disco, "On The Sunday Of Life", e il singolo (benchè anomalo) "Voyage 34", questo è il primo disco dei Porcupine Tree. Lo stesso Wilson ha ammesso che "On The Sunday Of Life" era solo una raccolta di canzoni da lui composte da giovane e poi registrate su cassetta, quindi pubblicate sotto forma di album. Invece qui abbiamo la prima vera idea di un gruppo nascente, poichè se è vero che Steven ha composto e suonato quasi interamente il disco, abbiamo l'ingresso di
    due pedine importanti (inizialmente solo come supporto nelle performance live): Richard Barbieri e Colin Edwin rispettivamente a tastiera/sintetizzatore e basso.
    L'album doveva originariamente essere un doppio e contenere anche il singolo "Voyage 34", oltre ad altre 3 tracce, poi finite in un EP di cui tratterò a parte, "Staircase Infinities".
    Per finire con i cenni "storici" voglio ricordare che di questo album esistono fondamentalmente 2 versioni: la prima, l'originale, risale al 1993. La seconda è un remaster del 2005 in cui, oltre alla maggior pulizia del suono e a parti con chitarra acustica rimaneggiate, troviamo, al posto della batteria elettronica, Gavin Harrison (che comunque non snatura lo stile dell'album, riesce invece a mantenerne
    intatto il gusto).

    Per i fan dei Porcupine Tree di nuova data, questo disco risulterà sorprendente a dir poco. In questo periodo Steven Wilson è ancora nel suo momento psichedelico, quindi musica con largo uso di elettronica e suoni sintetizzati, schema compositivo spesso assente, tappeti di tastiere onirici, voci atone in sottofondo, assoli alla Gilmour (molte note stilistiche dei Pink Floyd in questo primo periodo).

    L'album è essenzialmente un unico magma musicale, da ascoltare dall'inizio alla fine senza salti. Ci sono dei pezzi di collegamento molto brevi privi di qualsiasi struttura, ovvero semplice fusione di sintetizzatore, tastiere impazzite e loop di suoni elettronici.
    Parlo di "What Are You Listening To", che funge da apertura dell'album, di "Monuments Burn Into Moments" e di "Siren", tutti della durata di pochi secondi.

    "Synesthesia" potrebbe essere considerato come "il singolo" di questo album, essendo che ha una durata appropriata, una struttura melodica orecchiabile, un ritmo sostenuto e (addirittura) un testo. Ci sono anche due assoli di chitarra che a un orecchio poco esperto potrebbero sembrare di David Gilmour. Steven Wilson non è un chitarrista molto tecnico, ma recupera ampiamente in fantasia e capacità espressiva, nonchè in pulizia e bellezza dei suoni che riesce a produrre e i suoi assoli sono sempre facili da apprezzare.
    "Always Never" è un altro pezzo molto interessante, fra i migliori dell'album. La prima parte è sia strumentale che cantata, all'inizio solo tastiere e voce sommessa, poi anche batteria e basso, una melodia molto piacevole e un ritmo trascinante. La seconda parte del pezzo comincia con un tappeto di tastiere e suoni sintetizzati e la voce sommessa di Wilson, poi riparte la batteria e c'è un lungo e godibilissimo assolo
    che arriva fino al termine del pezzo.
    La title track è interamente strumentale. C'è la presenta, in certi momenti, di una voce femminile atona che sentenzia in background. Il pezzo alterna momenti fatti interamente di un intreccio di tastiere e sintetizzatore, misti a un giro di basso in loop che crea un'atmosfera ipnotica e a una batteria ripetitiva, a momenti di sfogo in cui parte un riff di chitarra in pieno stile Wilsoniano, piacevolissimo. Il finale è un crescendo soffocante.
    "Not Beautiful Anymore" rompe un po' l'atmosfera sognante con una batteria incalzante e un intreccio di chitarre, un riff ciclico di sfondo e una chitarra libera in primo piano.
    Arriviamo infine alla parte, secondo me, migliore dell'album, ovvero le ultime 3 tracce. "Small Fish" introduce un motivo che verrà espresso in maniera più ampia nella traccia seguente. Comincia con una melodia orecchiabile e sognante e un cantato in chorus, in pieno stile Wilson, e sfocia in uno stupendo assolo di chitarra, limpido e cristallino, mentre le tastiere creano uno sfondo di suoni liquidi e di echi marini. Davvero stupenda (anche se breve).

    Non si ha il tempo di risvegliarsi che subito incalza "Burning Sky", che comincia con una batteria serrata e un loop di chitarra accattivante e che cambia spesso forma, ricamando suoni sempre nuovi. Dopo circa 3 minuti le tastiere partono con un motivo duro e ciclico mentre in primo piano la chitarra viaggia libera. Tutto si tronca bruscamente, echi profondissimi di chitarra e tappeti sommessi accompagnano il respiro affannoso di un uomo, mentre un tic-toc scandisce il tempo. Poi lentamente pochi accordi di chitarra ci introducono al finale che riprende in toto la parte iniziale con poche variazioni, ritmo incalzante e riff di chitarra, poi per un momento riprende la melodia di "Small Fish" anche nell'assolo e infine chiusura in crescendo, sempre con il tic-toc di sfondo.
    Arriva infine la conclusione del disco con "Fadeaway", canzone che Wilson ha sempre apprezzato tanto da definirla "la preferita del disco".
    Comincia con il tic-toc che ormai conosciamo, poi una base di tastiere oniriche ci introduce a questo stupendo pezzo. Pochi secondi e arrivano anche la chitarra e la batteria. La chitarra viaggia libera con una melodia bellissima fino a che non arriva la voce di Steven calda e profonda.
    Il pezzo prosegue con le tastiere sempre a sostenere l'intera struttura e la chitarra a ricamare motivi mai banali e sempre piacevolissimi fino alla conclusione in cui un giro di chitarra molto bello ci accompagna fino alla fine in cui le tastiere sfumano nel silenzio.

    Per i fan dei Porcupine Tree questo è un album che non si può non avere , non solo perchè è il primo vero disco della band, ma anche perchè è molto godibile, pur se decisamente virato verso la psichedelia, e ci fa capire in che modo sorprendente la band si sia evoluta nel corso degli anni.


  3. #93
    Kelvan
    Ospite
    Porcupine Tree – The Incident
    Progressive Rock
    2009






    CD1: The Incident

    I. Occam’s Razor
    II. The Blind House
    III. Great Expectations
    IV. Kneel And Disconnect
    V. Drawing The Line
    VI. The Incident
    VII. Your Unpleasant Family
    VIII. The Yellow Windows Of The Evening Train
    IX. Time Flies
    X. Degree Zero Of Liberty
    XI. Octane Twisted
    XII. The Séance
    XIII. Circle Of Manias
    XIV. I Drive The Hearse

    CD2

    1. Flicker
    2. Bonnie The Cat
    3. Black Dahlia
    4. Remember Me Lover


    L'ultimo album prodotto dalla band è un lavoro particolare. E' suddiviso su 2 dischi per un buon motivo, essendo che sul primo disco trova posto l'album vero e proprio, mentre sul secondo abbiamo una sorta di EP, 4 canzoni indipendenti, sia tematicamente sia, seppur parzialmente, stilisticamente e che quindi non avrebbero potuto rovare un loro posto assieme alle altre.

    Questo è, a tutti gli effetti, un concept album, come lo era stato "Fear Of A Blank Planet", poichè attorno a una tematica ben precisa viene prodotto un disco in cui
    esiste un filo conduttore unico che unisce i vari brani. Nel caso di "The Incident" il tema è chiaramente intuibile dal titolo, ma chi meglio di Steven Wilson può spiegarci come stanno davvero le cose? Spazio a una sua dichiarazione, in cui descrive ciò che ha pensato un giorno in cui restò bloccato in un ingorgo in autostrada a seguito di un incidente (ho tradotto per i non anglofoni, la dichiarazione originale è disponibile QUI):

    "C'era un cartello che diceva 'POLIZIA - INCIDENTE' e tutti rallentavano e tiravano il collo per vedere cosa fosse successo. Più tardi rimasi colpito dal fatto che 'incidente' è una parola molto distaccata per descrivere un evento così devastante e traumatico per le persone coinvolte. Ed ebbi la sensazione che l'anima di chi era morto nell'incidente entrasse nella mia auto e si sedesse accanto a me.

    L'ironia data dall'uso di un'espressione così fredda per degli eventi così scioccanti mi affascinò e cominciai a considerare altri 'incidenti' riferiti dai media e dai giornali. E scrissi riguardo alla liberazione di ragazzine da un culto religioso in Texas, di una famiglia che terrorizzava i vicini, di un corpo ritrovato in un fiume da alcune persone che stavano pescando, e altro ancora. Ogni brano è scritto in prima persona e cerca di umanizzare i reportage così distaccati dei media"

    Steven inoltre prende spunto da esperienze personali come la perdità di un'amicizia in giovane età, una seduta spiritica, il suo primo amore e il giorno in cui abbandonò il suo lavoro per seguire il suo sogno di fare musica.

    Vediamo dunque che di carne al fuoco pare essercene molta. Il primo disco è, nelle intenzioni della band, una traccia unica. Questo è parzialmente vero, nel senso che
    sicuramente il filo conduttore è il medesimo ed è difficile apprezzare l'album se non lo si ascolta interamente, essendo che alcuni pezzi sono di breve durata o poco significativi se estrapolati dal contesto. Bisogna anche notare, però, che molti pezzi sono, a livello compositivo, completamente sconnessi da quelli che li seguono,
    quindi, almeno formalmente, la traccia unica non sussiste.

    Cerchiamo di analizzare il disco e vedere se merita o se i Porcospini questa volta non si siano imbattuti essi stessi in un 'incidente' di percorso.
    L'apertura del disco avviene bruscamente con 3 scariche sature di chitarre profondissime che poi tacciono, sullo sfondo sussurri, suoni spettrali, lontani echi.
    L'atmosfera è oscura e sinistra. Questo cortissimo brano è, secondo me, il manifesto dell'intero disco. Si capisce che questo lavoro non è figlio dei precedenti, ma una
    cosa nuova. Subito incalza il brano successivo, un pezzo duro, chitarre ultra-sature, batteria incalzante, voce asciutta e atmosfera oscura rinforzata dalla parte centrale sommessa, con rumori metallici, suoni elettronici e cantato sussurrato. Ed ecco che quando si comincia a pensare di aver comprato un disco dei Nine Inch Nails, arriva la chitarra acustica del brano successivo, accompagnata dai classici assoli Wilsoniani e da una melodia malinconica a ricordarci che questi sono ancora i Porcupine Tree.
    Dopo pochi secondi subito arriva la traccia successiva, "Kneel And Disconnect" con un bel giro di pianoforte e i classici cori a cui Wilson ci ha ormai abituato.

    Gli ultimi due pezzi molto brevi fanno da collante per brani più lunghi, come è appunto "Drawing The Line" che comincia con un ritmo sincopato, la voce in primo piano e un giro di pianoforte che si alterna a fasi più incalzanti dove domina la chitarra e la voce si fa più intensa. Il finale è forse un po' trascinato, ma non si fa in tempo a restare
    delusi perchè arriva la title track nonchè, forse, pezzo forte del primo disco (insieme a "I Drive The Hearse"). Un rumore elettronico basso e ruvido scandisce il ritmo, mentre una voce di sfondo sussurra un mantra ossessivo. Sopra a tutti la voce di Wilson che parla e descrive l'ingorgo in cui è intrappolato: il traffico congestionato, le sirene, le luci delle ambulanze, la sensazione di disagio e il presagio della sventura. La sensazione di oppressione è soffocante, l'espressività di questo pezzo è qualcosa di sensazionale (i Nine Inch Nails sarebbero fieri di aver composto una cosa del genere).
    Arrivano poi piccoli arpeggi nervosi e assordanti di chitarra e cori dissonanti in sottofondo. Parte un loop di chitarre sovraccariche che scavano sotto lo sterno mentre una voce spettrale, completamente distorta, quasi piangendo, pronuncia parole incomprensibili. Poi arriva Harrison con un ritmo assolutamente fuori da ogni schema, ma la liberazione non tarda a venire: il tutto sfocia in un finale melodico in cui ritornano i Porcupine Tree che conoscevamo a ridarci un po' di conforto. Magnifico.

    La traccia successiva è una breve melodia in chitarra acustica con assolo finale per spezzare il ritmo. "The Yellow Windows Of The Evening Train" è completamente strumentale, un lungo intreccio, rilassante e solare di tastiere che ci prepara per il brano a venire che è diventato un po' il simbolo di questo album. "Time Flies" è un tipico pezzo alla Steven Wilson, parla non per niente della sua giovinezza. E' orecchiabile, c'è un classico intreccio di chitarra acustica ed elettrica, molto ritmato e melodico e sonorità tipicamente Floydiane (soprattutto ricorda a tratti "Animals" in maniera abbastanza marcata).

    Una parte centrale, forse un po' troppo annacquata, in cui subentra una melodia più triste e opprimente, poi il finale che riprende lo schema iniziale. E' una canzone con una struttura molto semplice, priva di particolari innovazioni o momenti salienti, ma se non ci fosse stato un pezzo del genere nel disco tutti ne sarebbero rimasti delusi. Il brano successivo fa da collante, riprende le scariche iniziali di chitarra e pochi arpeggi
    sommessi. "Octane Twisted" parte con un intreccio di chitarre melodico che riprende il leitmotiv del disco (già presente in "The Blind House") ma poi accelerà bruscamente e diventa un pezzo quasi metal, con chitarre distorte e veloci e batteria incalzante. Il brano successivo riprende ancora una volta il leitmotiv, è melodico e sommesso, con la voce di Steven che ci accompagna calma e tranquilla su questa composizione orecchiabile, coronata da echi di rumori limpidi e ignoti che si perdono di sfondo.
    Il pezzo strumentale successivo, "Circle Of Manias", rompe completamente il ritmo, è rapido, sincopato, con chitarre ancora una volta sature, distorte e assordanti, suoni ruvidi e secchi e batteria incalzante. Termina bruscamente per fare spazio alla suite di chiusura, una perla rara e inattesa, dato che non ha nulla a che vedere con i brani precedenti. Un arpeggio di chitarra dolce, la voce di Steven che ci culla su una melodia sommessa e malinconica, condita da un ritornello assolutamente stupendo e da cori in pieno stile Wilsoniano. Così termina il primo disco.

    Il secondo è una sorta di EP, i brani sono slegati fra loro, è materiale comunque assai valido, ma che non poteva trovare posto nel primo disco. "Flicker" è una suite di apertura orecchiabile e piacevole, "Bonnie The Cat" è un pezzo oscuro e sinistro, con un cantato nervoso e sommesso e un riff di chitarra finale molto coinvolgente.
    "Black Dahlia" è una pezzo con un'atmosfera crepuscolare dove domina la maestria di Barbieri. Il pezzo finale è una classica ballata Wilsoniana.

    Che dire di questo "The Incident"? Sicuramente è un album atipico, è evidente la volontà di proporre qualcosa di nuovo. La struttura è quasi monolitica, difficile apprezzare singolarmente le varie parti se estrapolate dal contesto. Il concept è interessante e reso, a mio avviso, in maniera appropriata e la produzione è, come al solito, stellare (la qualità dei suoni, il bilanciamento dei volumi, la spazialità sono qualcosa di sensazionale). Tuttavia si rimane con la bocca parzialmente asciutta, l'impressione è che negli album precedenti ci fosse un'ispirazione, un pathos e una brillantezza che qui sono andati parzialmente perduti. Un bel disco insomma, ma non un capolavoro e, forse, dai Porcospini, che tanto bene ci hanno abituato, era lecito attendersi qualcosa in più.


  4. #94
    Kelvan
    Ospite
    Steven Wilson - Grace for Drowning
    Progressive Rock
    2011




    Disc 1: Deform to Form a Star
    1. Grace for Drowning
    2. Sectarian
    3. Deform to Form a Star
    4. No Part of Me
    5. Postcard
    6. Raider Prelude
    7. Remainder the Black Dog

    Disc 2: Like Dust I Have Cleared from My Eye
    1. Belle de Jour
    2. Index
    3. Track One
    4. Raider II
    5. Like Dust I Have Cleared from My Eye


    Piano - Steven Wilson, Jordan Rudess
    Electric guitar - Steven Wilson, Steve Hackett, Mike Outram
    Acoustic guitar - Sand Snowman
    Bass guitar - Steven Wilson, Tony Levin, Nick Beggs, Trey Gunn
    U8 touch guitar - Markus Reuter
    Drums - Nic France, Pat Mastelotto
    Warr Guitar - Trey Gunn
    Soprano Saxophone, Saxophone - Theo Travis
    Clarinet - Theo Travis, Ben Castle
    Stick - Nick Beggs, Tony Levin
    Strings - London Session Orchestra, Dave Stewart
    Flute - Theo Travis
    Keys, autoharp, harmonium, percussion - Steven Wilson
    Production, mixing, vocals - Steven Wilson

    Mi avvicino con una briciola di diffidenza a questo ennesimo lavoro del bulimico, musicalmente parlando, Wilson, per vari motivi: perchè il primo album solista, “Insurgentes”, era un buon album, ma mancava di quel carisma che solitamente hanno i lavori di Steven e che te li fanno amare. Tale carisma mancava anche nell'ultimo album dei Porcupine Tree, “The Incident”. Ho pensato quindi che si fosse “bruciato”. Troppi lavori, troppi side project, troppa produzione in poco tempo: ricordo che Steven in quest'ultimo periodo ha lavorato al remix in 5.1 di svariati album dei King Crimson (In the Court of the Crimson King, In the Wake of Poseidon, Island, Lizard, Red, Starless and Bible Black e Discipline) nonchè alla re-issue di “Aqualung” dei Jethro Tull, è stato impegnato nella realizzazione di “Cenotaph” dei Bass Communion, in “Welcome to my DNA” dei Blackfield, ha prodotto l'ultimo album degli Opeth, “Heritage”, ha lavorato insieme a Mikael Åkerfeldt degli Opeth e a Mike Portnoy dei Dream Theater a vari pezzi che saranno rilasciati sotto forma di album nel corso del 2012 (il nome della band dovrebbe essere “Storm Corrosion”), e ha lavorato a innumerevoli altre release e produzioni.
    Inutile sottolineare come sia difficile per un musicista sfornare una quantità tale di materiale senza inficiarne la qualità e l'originalità. Fortunatamente questa volta, a dispetto della mia diffidenza e dei leggeri passi falsi precedenti, sono stato sonoramente smentito. Ma andiamo con ordine. Cosa ci propone questo album? Due dischi: verrebbe da pensare che siano troppi, visti i precedenti e quanto appena detto, ma tant'è che ci ritroviamo con 7 tracce nel cd numero 1 e altre 5 tracce nel numero 2, per un totale di circa 1 ora e un quarto di musica. Una rapida occhiata ai musicisti che hanno partecipato alla realizzazione dell'opera mi mette di buon'umore, soprattutto vedere Steve Hackett alla chitarra mi fa tornare alla mente i Genesis dei tempi d'oro, senza contare innumerevoli elementi provenienti dai King Crimson, Jordan Rudess dei Dream Theater, Teo Travis, e la quantità notevole di strumenti suonati da Steven (chitarra, basso, piano, percussioni e ovviamente voce) mi incuriosisce. Rigiro fra le mani il package ideato dal solito Lasse Hoile, qui in piena forma (guardatevi il video di “Remainder the Black Dog” sul Tubo), posiziono il primo cd e pigio play: vengo accolto dalla title track, da cui mi aspetto sempre qualcosa di speciale, rimango con l'amaro in bocca. E' una suite di apertura molto languida, malinconica e asciutta, con pianoforte e voce e classici cori alla Wilson. Il testo non esiste, è un “LA-LA-LA” cantato, nulla di più. Non faccio in tempo a dire “ecco, avevo ragione, è esaurito...” che arriva “Sectarian”: l'incipit è di quelli buoni, chitarra con giro di accordi dissonanti, ritmo sincopato, ad un certo punto esplosioni sonore, cambi di ritmo, giri di basso stupendi, il sax impazzito e cori, poi frattura, subentra una parte ritmica con basso e batteria e tappeto di mellotron che cresce in sottofondo che mi ricorda tanto “Sailor’s Tale” dei King Crimson (album “Islands” del ‘71, per chi fosse interessato). Penso “bravo Steven, hai messo a segno il primo punto...avanti così...”. E vengo ripagato, perchè entra in scena “Deform to Form a Star”, che dà il sottotitolo al primo cd dell’opera, pezzo antipodale rispetto al precedente ma di una bellezza assoluta.
    Vengo accolto da un giro di pianoforte, puro, malinconico, su cui si innestano poi le chitarre, la voce e splendidi cori e un assolo di chitarra (con un timbro molto simile a quello che si trova nella versione di “Shesmovedon” inclusa nell’album “Deadwing” dei Porcupine Tree), segue la chiusura con un bel cantato e un giro di piano e chitarra ritmato davvero azzeccato . Probabilmente uno dei pezzi migliori dell’album, Steven qui riprende le sue classiche sonorità, tante volte godute durante gli ascolti dei Porcupine Tree, soprattutto del periodo “Lightbulb Sun” e “Stupid Dream”, ed elevate grazie alla maggiore maturità a cui è ormai giunto. Gli spettri che mi spaventavano all'inizio se la sono data a gambe definitivamente e non vedo l'ora di sentire le tracce rimanenti. “No Part of Me” è un brano diviso in due parti, comincia con sonorità elettroniche e ariose e prosegue in maniera melodica con abbondante uso di archi, ricordando certi brani di “In Absentia” dei Porcupine Tree, ma nella seconda parte diventa più duro, con un riff di chitarra elettrica, tastiere elettroniche, assoli impazziti e batteria serrata, ricordando in maniera piuttosto marcata gli album d’esordio, come “Up the Downstairs”. “Postcard” è il classico pezzo orecchiabile, direi praticamente pop, in pieno stile “Drown With Me” e con sonorità che si rifanno molto ai Blackfield, con tastiere e archi in abbondanza. Nulla da segnalare, va giù liscio senza troppe storie. “Raider Prelude” è appunto il preludio a uno dei pezzi migliori dell’album, è un intreccio di cori dissonanti e pianoforte, piuttosto sinistro e di breve durata.
    Arriviamo quindi a “Remainder the Black Dog”, uno dei pezzi forti. Un giro di pianoforte sinistro che fa molto “The Battle of Glass Tears” dei King Crimson (album “Lizard” del ‘70) accompagna un cantato distorto dall’elettronica, poi il pezzo evolve con sonorità jazz, in un intreccio di assoli di chitarra, sax, esplosioni di hammond e mellotron, giri di basso magnifici e ritmi improbabili e lascia persino spazio a sprazzi alla Dream Theater grazie all’apporto di Rudess. Si chiude nello stesso modo in cui è iniziato. Sicuramente uno dei pezzi migliori mai composti da Wilson, che da tempo non sfornava brani di questa portata.

    Si chiude così il primo disco, mi sento già pienamente appagato e mi ripeto, in un misto di felicità e di timore “se anche il secondo disco non sarà all’altezza, non importa, già il primo vale il prezzo del biglietto…”. Non mi voglio dilungare eccessivamente, “Belle de Jour” è una suite malinconica in cui dominano pianoforte e chitarra e che mi ricorda un po’ “How is your Life Today” (album “Lightbulb Sun” dei Porcupine Tree), “Index” invece ha una predominanza di sonorità elettroniche, quasi a voler riprendere i “Depeche Mode” degli ultimi album (“Playing the Angel” mi è tornato subito alla mente) o i Nine Inch Nails, in un’atmosfera oscura e sofferente che si chiude però in un finale intriso di archi che rimanda moltissimo a “Sleep Together” (album “Fear of a Blank Planet” dei Porcupine Tree). “Track One” si apre con un intreccio melodico di chitarra, voce e tastiere, segue una parte centrale grave e soffocante e si chiude con uno splendido arpeggio di chitarra e fraseggi di pianoforte. Ma ecco che inizia il piatto forte del secondo disco (e forse dell’intera opera).
    “Raider II” è un brano monumentale, 23 minuti in cui quasi tutto funziona alla perfezione. Pochi sinistri e rarefatti tocchi di pianoforte ci introducono a questo viaggio, il rumore di un respiro distorto, atmosfera malata, cantato preso di peso da “Cirkus” (King Crimson, “Lizard”), poi riff pesante di chitarra, e poi jazz e pianoforte e basso perfetto e flauto incredibile e tutto che si incastra perfettamente, segue una parte centrale serratissima che mescola in maniera sorprendente i King Crimson di “Islands” e “Lizard” e gli svarioni “Dream Theateriani” di Rudess, segue una breve sosta ambient molto cupa e arriva il finale, un arpeggio di chitarra da orgasmo intrecciato con il flauto di Travis e la voce di Steven rarefatta, poi tutto cresce seguendo sempre la stessa melodia con le tastiere che riempono i timpani e poi un giro di accordi in salita spiraliforme e la batteria e il sax impazziti in una chiusura in cui tutto tace, solo pochi tocchi di chitarra e di basso e sullo sfondo rumori elettronici che ci riportano al silenzio. Questo è forse il pezzo migliore che Wilson abbia mai composto, sono sempre stato un grande fan di “Anesthetize” come brano “campione” dei Porcupine Tree ma mi devo seriamente ricredere dopo aver sentito “Raider II”.
    “Like Dust I Have Cleared from My Eye” dà (immeritatamente) il titolo al secondo cd e chiude questa ultima fatica di Wilson: è una ballata abbastanza classica, di buona qualità che si chiude con una parte ambient molto ben riuscita che ci scioglie le interiora dopo la “fatica” di “Raider II”.

    Cosa posso dire di questo album?
    Che dire, mi piace davvero tantissimo, non avrei potuto chiedere nulla di meglio, la paura iniziale si è dissolta in brevissimo tempo e ha lasciato spazio al puro piacere di ascoltare finalmente il Wilson che esisteva ancora nella mia testa ma non più nella realtà, quello capace di riprendere in maniera sostanziale gli stilemi del prog anni ’70 e donargli una veste più moderna e mai banale. Lunga vita a questo tipo di musica, forse Steven dovrebbe seriamente pensare di mollare la rincorsa al metal che ha animato i suoi ultimi album e che li ha resi via via sempre più scialbi e tornare definitivamente a fare ciò che sa fare meglio. In questo album lo ha fatto e i risultati sono sotto i nostri occhi, speriamo sia un nuovo inizio e il primo di una lunga serie di lavori nuovamente accattivanti.


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