Eclisse, seconda venuta. Silenzio e inverno.
Immagine realizzata da Avatarz
E –dopo un istante di universo- mi ritrovavo ancora a correre, ma non con le gambe, ma con la testa, per non perdere il passo, per non stare troppo indietro, per non lasciarmi sfuggire i pensieri reali che erano l’unica salvezza per riuscire a fingere e dire “No, non sono folle”, a una qualunque Ragazza rappresentante il gioco-giogo impostomi dal cosmo.
E no, non vidi una porta che dava sull’universo, non mi priverò della soddisfazione d’averlo detto, ma fingerò di non averla vista.
Ed entrandovi capii di quanto poco è importante il fatto che l’eternità sia infinita: c’era tutto, non c’era niente, c’ero io, c’era lei, c’eravamo noi ed era quasi mezzanotte.
Dovetti scappare, per paura di trasformarmi in siringa e perforarla, iniettandole il mio veleno.
O la mia droga.
E quindi ero triste, triste per me, felice per lei, tristefelice per noi. Noi? Non esistevamo, o meglio, prima non lo pensavo, adesso lo penso.
Non starò a descrivere il paesaggio che ho visto poi, perchè non l’ho visto, e aggiungerei particolari inventati, scusatemi, anzi scusami, ma è così.
Come la Tragica nota di un violino che riecheggia nei vuoti anfratti dello spazio e del tempo. Non è niente, davvero, non siamo niente, davvero.
E’ bello pensarlo, ma forse non è così.
Volavo sopra il mondo e sopra i mulini, e non c’era niente sopra a me.
Mi risvegliai di soprassalto, ero su un letto volante, posto su una nuvola (anch’essa volante) che mi parlava, con voce non troppo baritonale: “Hai visto i confini dello spazio?”
“Ho visto una Stella”
“Hai visto la più bella?”
“Forse. Ma non è impor...”
E quel ‘forse’ fu un vero e proprio lampo, le cicale frinirono, i petali finirono.
Sospinto dal vento volavo, e ormai la nuvola baritonale era un ricordo di un inverno passato. Colori foschi all’orizzonte.
Ma no, non volevo arrendermi, anche perchè non avrebbe avuto senso: non stavo lottando. Stavo e basta.
E stare da solo, dinnanzi al portone del tempo era cosa Magnifica Terribile Magnifica.
E quando la porta, che si allungava verso l’alto per lo spazio infinito e verso il basso per l’infinita eternità si aprì, la luce mi accecò, e mi trovai gemente in un mare di placenta primaria.
Ma ricordai di essere solo un mostro primitivo, raffigurato in un graffito pleistocenico, e la forza del mio non-ricordo fu talmente imponente che mi ritrovai veramente statico in uno statico graffito pleistocenico. E quando ne uscii capii cosa desideravo, ma non lo dirò, dato che non desideravo niente.
E c’era un eco eterno di gocce d’acqua che si fondevano l’una con l’altra.
Un signore stava inseguendo il suo cappello, portatogli via dal vento, e in mano teneva un grande ombrello aperto, azzurro. Io correvo più veloce, perchè non avevo gambe, ma solo pensieri, e gli restituii il cappello. Era proprio una persona decentrata, piccolo e pelato, con gli occhietti blu e un sorriso placido.
“SORNIONE” gli urlai, e si smaterializzò, rimaterializzandosi settemilionieduecento anni dopo, più o meno. Volavo sotto ai ponti, sospeso sul fiume. Ero parte integrante dell’antico ordine delle cose.
Ed ero morto ma vivevo ancora, perchè una parte di me sempre era vissuta e sempre vivrà, una risata che si espande per l’eternità.
Presumo.
Lo dicevo al mio corpo: “Non esisto eppure sono e sarò sempre”.
E sia.
E in un giardino la bella ragazza mi si avvicinò, e potevo sentirne il profumo, antico eppur fragrante, e la sfiorai, anche se la paura di perderla era enorme. Ed aveva un vestito bianco, intessuto di Galassie e Comete, e danzammo in un’antica cattedrale barocca che esisteva in uno scenario che era avventato considerare Microcosmo.
E il cimitero, là fuori, era qualcosa di bello e rilassante, la luna invernale, il cielo astrale, sorriso fatale, alberi tetri e tombe nella nebbia, tutto fuori. E noi dentro, a sfiorarci per tanto, tanto tempo, e solo pensieri e pensieri e sussurri.
Mi addormentai e mi risvegliai secoli prima, in un mondo a me ignoto, ma subito ci presi la mano, perchè lo conoscevo. Infatti, mi si presentava come volevo. E quindi una supernova esplose e mi ritrovai a piangere non dalla gioia, non dalla tristezza, nel gas freddo e nell’arsura della stella morta.
E’ bello il freddocaldo. Bello come il cadavere di un neonato.
Di nuovo. Pensavo a quanto fosse assurda la morte, cioè quando cala il sipario e poi tutti applaudono ed esternano le loro emozioni ma poi inizia un altro atto e così via.
E il rumore di futuristiche armi laser, cose tipo i film di fantascienza degli anni ’20.
Ballavo e suonavo Ragtime su una spiaggia di polvere di stella, e le stelle giravano, nascevano e morivano, nell’eclisse solitaria.
Ero un figurino Vaudeville, con tanto di bastone, ma non inglese, ed ero solo su Plutone, che era triste (quasi) quanto me.
Ci consolammo a vicenda, ma in realtà ognuno voleva consolare sé stesso. Questo ci aiutò a non perderci e ritrovare la via per il sole, che era pur sempre una stella, offuscata da un disco buio, ma una stella pur era.
E quindi triste cercavo di suonare il banjo, su un promontorio, la pianura di sotto, le stelle in cielo, la luna enorme, il vento e la sua noncuranza, il vuoto dentro.
Scritto il 05/01/2007 e revisionato il 06/08/2007